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L'affaire Moro

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L'affaire Moro

Messaggio da Insight »

Leonardo Sciascia scrisse “a caldo”, negli ultimi mesi del 1978, un saggio sul caso Moro destinato a fare epoca, che ancora oggi è letto e ricordato come uno dei libri più belli e importanti su quella tragica vicenda, intitolato “L’affaire Moro”.
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Si tratta di un pamphlet, un duro atto d’accusa contro i notabili della Democrazia Cristiana, che durante il lungo periodo di prigionia del loro presidente rifiutarono la trattativa con i brigatisti in nome di un’assurda e pretestuosa “ragion di Stato”, oltre che di un’aspra critica contro le misure del tutto inadeguate che furono adottate per liberare il prigioniero, le gravissime mancanze, le disfunzioni, gli errori, i sospetti e i depistaggi che gettano una luce sinistra sull’intera vicenda, trasformandola in uno dei più fitti e intricati misteri della Storia della Repubblica italiana.

Ma, soprattutto, il libro di Sciascia è un’interessantissima rilettura del caso Moro attraverso l’analisi dei fatti più eclatanti che si verificarono durante i 55 giorni, specialmente passando al setaccio le lettere scritte dal prigioniero, i comunicati dei brigatisti e il linguaggio usato dalla stampa e dai politici. Uno studio, quindi, volto a ricostruire la “logica” di quell’intricato caso e a individuarne le possibili soluzioni, non senza abbandonarsi, di tanto in tanto, a suggestioni squisitamente letterarie, facendo talvolta assumere all’intera vicenda una dimensione romanzesca: in certi punti del libro, insomma, il saggista, indagatore e polemista Leonardo Sciascia cede il passo al grande scrittore e letterato.


La presunta “ragion di Stato”

Anzitutto, Aldo Moro poteva e doveva essere salvato: se necessario anche scendendo a patti coi suoi carcerieri: una trattativa avrebbe senz’altro portato ad un avvicinamento strategico ai brigatisti che lo tenevano prigioniero, alla scoperta di nuovi e preziosi elementi che avrebbero potuto condurre all’individuazione del luogo di prigionia. Il trincerarsi fin da subito dietro il pretesto di una fittizia “ragion di Stato” dimostra che alla base vi era la volontà di non liberare l’ostaggio: alla Democrazia Cristiana faceva comodo l’eliminazione di Moro, una volta che egli era caduto e rimasto per troppo tempo nelle mani dei terroristi. La “ragion di Stato” fu, insomma, un’ignobile scusa che suona tanto più assurda se messa in bocca a persone che prima di allora non avevano mai dimostrato alcun senso dello Stato: la Democrazia Cristiana, anzi, era il partito che meno di tutti gli altri nella sua storia aveva espresso il senso di attaccamento ai valori dello Stato democratico: essa non aveva mai avuto a cuore lo Stato, ma soltanto se stessa, soltanto il partito. Per la Democrazia Cristiana, lo Stato era il partito e di questa concezione il più eminente rappresentante era proprio Aldo Moro. Egli, infatti, soltanto un anno prima del suo rapimento, aveva tenuto uno dei suoi più famosi discorsi in Parlamento: quello a difesa dell’onorevole Gui (democristiano) contro l’accusa di corruzione nell’ambito dello scandalo Lockheed: si rilegga, allora, quell’arrogantissimo discorso, noto per aver enunciato il dogma: “La DC non si processa”, che fonda l’innocenza di un onorevole democristiano su un sofisticato sillogismo:

La libertà e l’integrità del Paese sono intangibili; la Democrazia Cristiana rappresenta la libertà e l’integrità del Paese; ergo, la Democrazia Cristiana è intangibile…”.

Ecco la famosa “ragion di Stato” ridotta a “ragion di Partito”: il Partito è intoccabile, può stare anche al di sopra delle leggi, perché esso coincide con lo Stato, è lo Stato. Discorso tanto più assurdo e arrogante se si pensa che la Democrazia Cristiana non rappresentava affatto l’intero Stato, ma semmai un terzo di esso, o meglio un terzo dell’elettorato.


Non “statista” ma “politicante”

Subito dopo la prima lettera di Moro - quella da lui indirizzata al Ministro dell’Interno Cossiga e pervenuta il 29 marzo - la stampa iniziò a definirlo come uno “statista”: mai prima di allora aveva usato questo termine; ci si era sempre riferiti ad Aldo Moro chiamandolo “onorevole”, “deputato”, “presidente”; ma mai “statista”. E’ soltanto quando iniziò a porsi il problema della trattativa con le Br che Moro venne improvvisamente trasformato in uno “statista”, per diventare, poi, durante la fase più acuta del dramma, a partire dagli ultimi giorni di aprile, addirittura un “grande statista”.
E’ evidente che calcando su questo termine si voleva mostrare all’opinione pubblica che l’autore delle lettere giunte dalla prigionia non era Aldo Moro, ma erano le stesse Brigate rosse: se infatti Moro era uno “statista” - anzi un “grande statista” - non poteva aver scritto lui quelle lettere, in cui chiedeva e invocava la trattativa per la sua salvezza: può, infatti, un “grande statista” chiedere la capitolazione dello Stato per salvare se stesso? Assolutamente no. Ergo, non era Moro quello che scriveva, erano gli stessi brigatisti; o meglio era lui, ma coartato, drogato, impazzito, completamente succube, ormai, dei suoi carcerieri.

Nulla di più falso, a cominciare dalla definizione di “statista” usata nei confronti di Aldo Moro: egli non era affatto uno “statista”, ma semmai un “politicante”, abile e scaltro. Un calcolatore vigile e accorto, attento a sfruttare le debolezze degli avversari; apparentemente duttile, ma irremovibile: paziente, tenace, dotato di grandi capacità dialettiche. Formidabile oratore. “Grande”, insomma, finché si vuole, ma “politicante” e non “statista”. E da politicante egli si comportò anche durante la sua prigionia, lottando fino all’ultimo per la sua liberazione e salvezza.


Le lettere di Moro erano autentiche

Una delle pagine più vergognose dell’intera vicenda è proprio quella dell’immediato disconoscimento dell’autenticità delle lettere di Moro: tanta paura si aveva che quelle lettere colpissero nel segno, che scuotessero l’opinione pubblica e facessero breccia nel Palazzo, sollecitando e provocando una trattativa che, con ogni probabilità, si sarebbe conclusa con la liberazione dell’ostaggio, che subito ci si affrettò a dire che esse non erano “moralmente ascrivibili” allo “statista” Aldo Moro. Vennero pubblicati nei giornali opinioni di esperti psicologi, psichiatri e farmacologi che spiegavano gli effetti spersonalizzanti della prigionia e quelli delle sostanze psicotrope che, fatte assumere all’ostaggio, ne avevano certamente deviato la volontà, plasmandola al disegno criminoso dei brigatisti. Si scomodarono gli amici intimi dello “statista”, al di fuori della schiera dei collaboratori politici: quelli che lo conoscevano da tutta la vita e avrebbero avuto un chiaro e forte interesse affettivo alla sua liberazione, i quali dissero e scrissero pubblicamente che quello delle lettere non era lui, non era Aldo Moro. In altri termini, la Democrazia Cristiana usò ogni mezzo di persuasione in suo potere per screditare le lettere della prigionia, arrivando a decretare la morte civile dello “statista” prima ancora di quella fisica: il Moro che tutti conoscevano, l’uomo di Stato che non si sarebbe mai piegato al gioco dei suoi carcerieri, che mai avrebbe accettato di scendere a patti con dei criminali in nome del principio di legalità, non esisteva più: era morto, distrutto dalla violenza dei brigatisti, che avevano annullato la sua volontà sostituendola con la propria.

Eppure - e al contrario - da ognuna delle lettere emerge nettamente e chiaramente lui, l’uomo e il politicante Aldo Moro, con le sue solide convinzioni di sempre: religiose, morali, sociali e politiche. E’ lui quando scrive affettuosamente e disperatamente alla moglie, ai figli, agli amici. E’ lui quando scrive ai colleghi di partito ricordando a loro, in maniera lucida e inequivocabile, che tante altre volte si era messa da parte la ragion di Stato, ad esempio per la liberazione di terroristi palestinesi; è lui quando afferma di essere stato egli stesso, ai tempi del sequestro Sossi, favorevole alla trattativa; è lui - l’abile politicante - quando suggerisce di cercare soluzioni non umanitarie ma di scambio fra prigionieri e di valutare addirittura la possibilità di addivenire ad un rilascio “uno contro uno”. Ed è ancora lui, infine, quando, giocando la sua ultima carta di stratega politico, scrive al Papa perché faccia pressioni sul Governo.

Per Sciascia, l’autenticità delle lettere di Moro emerge non solo dalla loro lettura, ma anche dalla considerazione di alcune circostanze estrinseche: anzitutto, non è pensabile che i brigatisti agissero con violenza nei confronti del loro prigioniero (oltre a quella strettamente necessaria a privarlo della libertà fisica) e soprattutto fino al punto di alterarne e modificarne la volontà. Alle Brigate rosse, l’Autore dell’Affaire riconosce un certo “codice etico”: nella loro pur breve storia, esse non avevano mai dimostrato alcun accanimento contro le loro vittime e lo stesso giudice Sossi, al momento del rilascio dopo più di un mese di prigionia, aveva riferito di essere stato trattato bene. I brigatisti, peraltro, conoscevano la durezza del carcere dello Stato (del “SIM”, come lo chiamavano loro: “Stato Imperialista delle Multinazionali”) ed è piuttosto credibile che essi, non volendo in alcuna maniera somigliare all’entità che volevano annientare, cercassero, per quanto fosse possibile, di alleviare le sofferenze fisiche e psicologiche dei propri prigionieri: non per una sorta di pietismo, ma proprio per non comportarsi, dal loro punto di vista, come i nemici che combattevano. Oltre a ciò, se i brigatisti avessero veramente annullato la volontà del loro prigioniero, perché avrebbero rischiato la vita per consegnare anche lettere prive di ogni significato politico, contenenti semplici saluti, auguri e manifestazioni d’affetto ai familiari e agli amici?


Le indicazioni contenute nelle lettere

Le lettere dalla prigionia, dunque, erano autentiche e la volontà di Aldo Moro non era minimamente coartata, ma libera di esprimere le visioni e possibili soluzioni della vicenda. Tutt’al più, e anzi certamente, le missive erano sottoposte ad un attento controllo di censura da parte dei brigatisti, per evitare che da esse fuoriuscissero informazioni pericolose per loro.
Anche di questo aspetto, tuttavia, non si volle tener conto. E’ probabile, infatti, che Moro, da abile politicante, con le lettere cercasse sì la trattativa, ma anche che volesse guadagnar tempo, allontanare il più possibile il momento della sua esecuzione e - soprattutto - fornire indicazioni sul luogo dove si trovava o pensava di trovarsi. A rileggere attentamente le lettere, infatti, vi sono molti punti oscuri, espressioni o intere frasi talvolta completamente slegate dal contesto, con le quali lo scrivente pare voler comunicare qualcosa, lanciare dei segnali o avvertimenti utili per le indagini: perché è indubbio che Moro, prima ancora che nel rilascio a seguito di trattativa, abbia costantemente e ardentemente sperato nella scoperta della sua prigione da parte delle forze dell’ordine. Eppure, di nessuno dei tanti “segnali” contenuti nelle lettere si è voluto tener conto. I più eclatanti, secondo Sciascia (ma chissà quanti altri se ne sarebbero scoperti se le lettere fossero state analizzate accuratamente dagli esperti della polizia scientifica), sono contenuti proprio nella prima lettera, quella del 29 marzo.


Perché proprio a Cossiga?

Anzitutto, v’è da chiedersi perché quella prima lettera, in cui Moro invita a lasciar perdere l’astratto principio di legalità e la ragion di Stato e a porsi nell’ottica della trattativa, sia diretta al Ministro dell’Interno e non invece, come sarebbe più giusto e corrispondente ai suoi contenuti, al Ministro della Giustizia o, tutt’al più, trattandosi di una tematica che investe lo Stato nella sua interezza, al Presidente del Consiglio o al Presidente della Repubblica. Perché, invece, Moro scrive la sua prima lettera a Cossiga, cioè al Ministro dell’Interno?
La risposta ben potrebbe risiedere nel fatto che quella lettera contiene delle informazioni utili per la ricerca della prigione di Moro: perché il Ministro dell’Interno è quello che comanda le forze di polizia (il “capo degli sbirri” come lo chiamano i brigatisti nei loro comunicati di guerra) ed è quindi a lui che devono essere date certe indicazioni; e, anzi, proprio scegliendo lui, Cossiga e non altri, è probabile che Moro abbia voluto richiamare l’attenzione sulla natura dei contenuti che erano nascosti nel suo scritto. In pratica è come se, scrivendo a Cossiga, egli avesse voluto avvertire i suoi interlocutori dicendo: “Attenti, qua ci sono indicazioni per la polizia…”.


Un preventivo passo della Santa Sede…

Ebbene, è probabile che Moro, con quella sua prima lettera a Cossiga, al di là della richiesta di trattativa, che in fondo è appena abbozzata, avesse voluto avvisare che si trovava nelle vicinanze e, certamente, a Roma. Infatti, a un certo punto, verso la fine della lettera, si legge una frase che, a ben vedere, non c’entra nulla con tutto il resto ed è l’unica frase, peraltro, espressa dubitativamente, con due punti di domanda a brevissima distanza nello stesso periodo, come se si volesse farla risaltare nel testo, richiamando urgentemente l’attenzione del lettore. La frase è questa:

Penso che un preventivo passo della Santa Sede (o anche di altri? Chi?) potrebbe essere utile”.

Non solo una frase completamente slegata dal contesto, ma che suona assurda anche se letta isolatamente: infatti, come poteva seriamente pensare, Aldo Moro, che la Santa Sede avesse potuto fare “un passo” verso le Brigate rosse? Come poteva pensare che l’azione del Papa, in altri termini, avesse potuto sortire qualche effetto nei confronti dei brigatisti, che certamente non riconoscevano l’autorità del pontefice e non erano sensibili ad argomentazioni di carattere morale e religioso? Non dimentichiamo, infatti, che quando Moro più tardi si rivolgerà a Paolo VI, lo farà non perché egli agisca direttamente sulle Brigate rosse, ma piuttosto perché faccia da tramite e induca i democristiani a trattare coi brigatisti. Dunque? Qual è il vero significato di quella frase?
Secondo Sciascia, essa contiene un’indicazione sul luogo di prigionia di Moro: egli probabilmente pensava di trovarsi o all’interno della Città del Vaticano oppure in un altro luogo che godeva di immunità diplomatica, ad esempio un’ambasciata; oppure in un luogo vicino a un’ambasciata o alla stessa Città del Vaticano. In ogni caso, il luogo è a Roma. Soprattutto, l’indicazione che doveva essere colta in quella frase, era che Moro si trovava, o quanto meno pensava di trovarsi, a Roma.


Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato…

Ma vi è anche un’altra famosa frase contenuta in quella prima lettera a Cossiga che avrebbe meritato di essere passata al vaglio degli esperti. Una frase che, se letta con la dovuta attenzione, a ben vedere, appare piuttosto insensata:

Soprattutto questa ragione di Stato significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato…”.

Mi trovo sotto un domino pieno e incontrollato…”. Ma che significa “dominio pieno e incontrollato”? E che senso ha scrivere una frase del genere? Che un prigioniero si trovi sotto un dominio è cosa talmente scontata che non ha alcun senso precisarla. Ma poi, perché “pieno”? Può essere, il dominio cui è sottoposto un prigioniero, non “pieno”, cioè non totale? E, soprattutto, perché Moro specifica che il dominio cui egli è sottoposto è “incontrollato”? Da chi doveva essere controllato il suo dominio?
Anche qui è probabile che vi siano delle indicazioni nascoste sul luogo in cui Moro pensava di trovarsi: quel “dominio” potrebbe essere in realtà un “condominio”. “Pieno” potrebbe voler dire “affollato”, “trafficato di persone”. “Incontrollato”, infine, potrebbe significare “non ancora controllato dalla polizia” o addirittura non controllato perché “incontrollabile”, cioè dotato di un’immunità, ad esempio diplomatica…


La strana strategia dei brigatisti

Il comportamento “schizofrenico” tenuto dai brigatisti durante i 55 giorni è un altro dei grandi enigmi dell’intricato caso. Ciò, sia per quanto riguarda le lettere di Moro, sia anche, e soprattutto, per ciò che attiene alle famose “risultanze processuali”, cioè alle rivelazioni che Moro avrebbe fatto ai brigatisti durante gli interrogatori.
Quanto alle lettere, inizialmente pareva che il principio che le Br avrebbero applicato fosse quello della pubblicità assoluta: tutti dovevano conoscere quello che scriveva Moro, perché “al popolo non si nasconde nulla”, avevano scritto nel comunicato del 29 marzo che accompagnava la lettera a Cossiga. La quale, infatti, venne consegnata dai brigatisti anche ai quotidiani per la pubblicazione.

A partire dalla fine di aprile, invece, il “principio di pubblicità” decade: si viene a sapere, infatti, che molte lettere sono state recapitate il 29 aprile dai brigatisti a personalità eminenti, come il Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera, il Presidente del Senato, il Presidente del Consiglio, nonché a Craxi e a Piccoli. Le Br, però, non consegnano copia delle lettere ai giornali: sicché i destinatari che hanno interesse a non rendere pubblica la lettera ricevuta possono liberamente non farlo. Le Brigate rosse, dunque, disattendono clamorosamente il principio che avevano enunciato un mese prima, ossia quello secondo cui “al popolo non si nasconde nulla” e lo fanno proprio quando la vicenda entra nella sua fase più critica, quando la conoscenza del contenuto delle lettere forse avrebbero potuto incidere sull’opinione pubblica in senso favorevole alla trattativa. Perché questo “favore” alla Democrazia Cristiana? I brigatisti, veramente volevano trattare?

Ancora più stupefacente è il mancato utilizzo da parte dei terroristi delle risultanze degli interrogatori fatti a Moro durante la lunga prigionia. Anche qui, il loro atteggiamento è assai mutevole e contraddittorio. Nel famigerato comunicato n. 6, giunto il 15 aprile, nel quale le Br affermano di aver condannato a morte Moro, esse scrivono di aver deciso di diffondere solo clandestinamente le informazioni delle quali sono giunte in possesso nel corso del “processo”, adducendo il motivo che “la stampa di regime è sempre menzognera”. Si tratta palesemente di una scusa: la stampa, infatti, fino a quel momento aveva fatto un enorme favore alle Brigate rosse dando ampio risalto a tutti i loro comunicati e alle loro “risoluzioni strategiche”. I giornali e i telegiornali, durante il sequestro Moro, non parlarono di altro e funzionarono da “cassa di risonanza” delle azioni delle Brigate rosse. Quanto più vantaggioso sarebbe stato per i brigatisti diffondere pubblicamente le clamorose rivelazioni di Moro! Essi avrebbero ottenuto proprio l’effetto destabilizzante dei poteri dello Stato che dicevano di andare cercando. Eppure, e dopo aver essi stessi enunciato che “al popolo non si nasconde nulla”, i brigatisti scelgono di diffondere le informazioni solo tra le organizzazioni clandestine…Un po’ come dire: “State tranquilli, teniamo tutto noi…”.

Ma tali clamorose rivelazioni, di fatto, ci furono veramente? Proprio su questo, che è forse uno dei punti più cruciali della vicenda, le Brigate rosse cadono in una vistosa contraddizione all’interno dello stesso comunicato n. 6. In una prima parte, infatti, vi si legge:

Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle Multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato…Non ci sono quindi clamorose rivelazioni da fare…”.

Poco più sotto, al contrario, si legge:

L’interrogatorio ad Aldo Moro ha rivelato le turpi complicità del regime, ha additato con fatti e nomi i veri e nascosti responsabili…”.


La beffa del lago

Il 18 e 19 aprile sono i giorni in cui va in onda la “beffa del lago”. A causa della diffusione del (palesemente) falso comunicato delle Br n. 7, in cui viene annunciata l’esecuzione di Moro “mediante suicidio” e l’ “affondamento” del suo cadavere nel Lago della Duchessa, sommozzatori, alpini e reparti speciali, davanti alle telecamere della tv, scandagliano il piccolo lago di montagna completamente ghiacciato in superficie.
Che lo scritto sia falso, lo si evince dal suo diverso linguaggio rispetto agli altri precedenti comunicati. Esso è intriso di un cinismo beffardo e di una macabra frivolezza che non appartiene alla lingua delle vere Brigate rosse:

La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del Lago della Duchessa, alt. m. 1800 circa, località Cartore (RI), zona confinante tra Abruzzo e Lazio”.

Basterebbe questa frase per cogliere l’inautenticità del testo, in cui addirittura si fa dell’ironia (assai macabra) mettendo in relazione la consistenza del fondo del lago e la condizione in cui aveva affermato di trovarsi Moro in una delle sue lettere, usando la metafora dell’impantanamento…

Se non fosse bastata quella frase così grossolana, molto si sarebbe dovuto riflettere sulle minacce, velatamente ironiche, da bulletti di periferia, riportate alla fine del comunicato:

E’ soltanto l’inizio di una lunga serie di suicidi…”.

Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani…”.

Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc, che sono sempre sottoposti a libertà ‘ vigilata’…”.

Eppure, per una giornata e mezza, il Paese è col fiato sospeso e le televisioni puntate sul lago ghiacciato. Le ricerche si protraggono fino a notte fonda del 18 aprile e riprendono all’alba del 19, per smettere soltanto a ora di pranzo.
Fu una messa in scena, una “prova generale” della morte di Moro, per sondare le reazioni dell’opinione pubblica, per scaricare l’emotività dell’assassinio su una notizia falsa, in modo che una volta arrivata quella vera, la carica emotiva sarebbe già stata esaurita. Dopo la beffa del lago fu assolutamente chiaro che la DC non avrebbe mai trattato con le Br. Per i suoi colleghi di partito, Moro era già morto.

Ma le Brigate rosse, perché hanno aspettato due giorni per smentire il falso comunicato? Perché non farlo subito? Secondo Sciascia, anche i brigatisti trassero un vantaggio dalla “beffa”: essa servì anche a loro per valutare le reazioni della base della loro organizzazione e di tutta l’area a sinistra del PCI, sulla quale speravano ancora di avere presa.


Il comunicato del gerundio

Il 5 maggio, insieme alle ultime lettere di Moro, arriva anche l’ultimo comunicato delle Br, quello tristemente famoso in cui viene annunciata la sua ormai imminente esecuzione:

Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.

Siamo alle battute finali della tragedia, che assume ancora una volta i connotati di una farsa: ci si aggrappa a quel verbo, “eseguendo”, dal momento che esso esprime un’azione non ancora compiuta e dilatata nel tempo. Possiamo ancora farcela, Moro è vivo. Coraggio. C’è il gerundio. In quegli ultimi tre giorni non si parlò d’altro: l’intero Paese scoprì la forza salvifica contenuta in una forma verbale. C’è da scommettere, anzi, secondo Sciascia, che una buona parte degli italiani sentì nominare il gerundio per la prima volta o lo riscoprì dopo anni, come un ricordo sbiadito delle scuole elementari.
Si era davvero perduto il senso della realtà, ormai: la vita e la morte erano presenti soltanto in un gerundio, erano soltanto un gerundio presente.


Moro non aveva paura di morire

Aldo Moro aveva paura di morire? Molto si è detto è scritto anche su questo. Alcuni hanno rimproverato a Moro una certa “vigliaccheria”, un pensare soltanto a salvare la propria pelle. Assolutamente no, secondo il pensiero di Sciascia. Moro non era un vigliacco e non aveva paura della morte. Come tutti i meridionali, anzi, viveva in una sorta di costante “rapporto meditativo” con la morte: o meglio viveva, o “conviveva”, con il pensiero della morte. Tutti i meridionali pensano alla morte fin da quando sono molto giovani e non ne hanno particolare orrore. Esiste un certo “pessimismo”, infatti, tutto meridionale: esso consiste nel vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione, correre verso la morte. Tutto corre verso la morte, tranne il pensiero della morte, che esiste sempre e accompagna la vita di ogni meridionale. E’ probabile, allora, che Aldo Moro, durante la sua lunga prigionia, non abbia affatto avuto paura della morte in sé e per sé, ma piuttosto di quella morte: egli non voleva morire in quel modo, cioè come un condannato al patibolo. C’è morte e morte, insomma.
E, a ben vedere, è proprio questo ciò che gli hanno fatto: gli è stata letta una sentenza facendolo poi vivere nell’angoscia e nella disperazione, proprio come un condannato nel braccio della morte, fino al giorno della sua esecuzione. Una lenta e atroce agonia. Come Gesù nell'orto degli ulivi. Abbandonato dagli amici, avrà sudato sangue. Nessuno, nessun essere umano si merita questa fine. Bisognava salvarlo, ad ogni costo. Non esisteva alcuna ragione per non farlo: i cinque morti della scorta non ne giustificavano un sesto. Nessuna ragione di Stato - tanto meno quella di uno Stato che non conosce e non tollera la pena di morte - poteva rendere plausibile il suo sacrificio. E nemmeno esisteva una valida “ragione di Partito”, se tra i valori che quel partito si onorava di rappresentare vi erano quelli della cristianità.
***
Tante altre sono le questioni analizzate in questo bellissimo e importantissimo libro, divenuto ormai un classico della nostra letteratura e di cui ho scelto qui di riassumere i punti che mi hanno maggiormente colpito e soprattutto di evidenziare la sua tesi di fondo, che condivido pienamente: ossia quella secondo cui bisognava salvare Moro con ogni mezzo a disposizione, non escluso quello della trattativa con le Br. Non c’era davvero nessuna valida ragione per non trattare e non impedire, potendolo fare, la morte di uomo: anzi, proprio i principi di uno Stato democratico, che riconosce e tutela il valore della vita umana e non tollera la pena di morte, avrebbero dovuto deporre nel senso di scendere a patti con i terroristi, se necessario. E, alla fine, lo Stato avrebbe vinto lo stesso.
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Re: L'affaire Moro

Messaggio da Whiteshark »

Splendido libro, da cui emerge chiaramente che un partito che non aveva mai avuto il concetto di stato improvvisamente trovò nei suoi massimi esponenti uomini ampiamente permeati da questo principio e così, opponendosi a uno scambio di prigionieri, come richiesto dalle Brigate Rosse, Andreotti, Cossiga, Piccoli, insomma gli alti nomi della Democrazia Cristiana, di fatto consentirono l'esecuzione di Aldo Moro.

Sciascia accenna appena – e del resto costituisce solo un'ipotesi non suffragata da riscontri certi - che certamente l'aver Moro favorito un governo con l'appoggio del Partito Comunista non risultò cosa gradita agli Stati Uniti, e nemmeno all'ala marxista estrema, più propensa alla lotta di classe che agli accordi politici.

L'impressione che si ricava è che la morte del presidente della Democrazia Cristiana fosse stata decisa a priori, indipendentemente dall'esito di un processo politico in cui Moro non disse nulla di più di quel che già non si sapesse.
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Re: L'affaire Moro

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Giustissimo, White, sono assolutamente d'accordo.
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