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Frocio e basta

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Frocio e basta

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All’alba del 2 novembre 1975, il corpo martoriato del poeta, scrittore, giornalista e regista Pier Paolo Pasolini venne rinvenuto all’Idroscalo di Ostia.
Per troppo tempo in Italia è stata accettata acriticamente la “versione ufficiale” dell’omicidio a sfondo sessuale, secondo cui Pasolini sarebbe stato massacrato dal “ragazzo di vita” Pino Pelosi, che avrebbe reagito ad alcune pretese di sesso “troppo spinto” e alle conseguenti minacce da parte del poeta: Pasolini, dunque, vittima “violenta” delle sue stesse “perversioni sessuali” e delle sue torbide abitudini di vita…

Nel 2012, la docente di Letteratura italiana contemporanea Carla Benedetti e lo scrittore Giovanni Giovannetti hanno pubblicato un libro intitolato provocatoriamente Frocio e basta, in cui sottopongono a dura critica la versione ufficiale e propongono un’altra possibile pista per quel gravissimo delitto.

Di questo libro è poi uscita una nuova edizione aggiornata, con l’aggiunta di due capitoli, nel 2016.

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Secondo gli Autori di questo saggio, una possibile chiave del delitto potrebbe risiedere nell’ultimo romanzo che Pasolini stava scrivendo prima di essere ucciso, intitolato Petrolio, e pubblicato da Einaudi nel 1992 ancora in forma di bozza. In particolare, infatti, risulta che i curatori di quell’edizione (e anche quelli della successiva, del 2005) hanno omesso di pubblicare un intero capitolo, che Pasolini, come si legge nei suoi appunti oggi depositati presso il gabinetto Vieusseux a Firenze, intendeva inserire nel romanzo. Oltre a ciò, vi è il fondato sospetto che un paragrafo da inserire in un capitolo del romanzo, che avrebbe dovuto intitolarsi Lampi sull’Eni, sia scomparso nel nulla.

Ci sono dunque notevoli probabilità che Pasolini sia stato ucciso mentre stava scrivendo qualcosa di molto scottante, qualcosa che non si doveva, e ancora oggi non si deve, sapere.
Ma prima di addentrarci in questa ipotesi “complottista”, vediamo come, per contro, in Italia si sia fin da subito voluto considerare la morte di Pasolini come un delitto a sfondo sessuale, accreditando la (prima) versione fornita da “Pino la Rana”.

Di seguito, come ho già fatto per altri saggi, riporto i contenuti principali sintetizzandoli (molto) in dei capitoletti che però non corrispondono topograficamente a quelli del libro, ma sono di mia “invenzione” (compresi i titoli).



Come la cultura italiana reagì all’omicidio di Pasolini

Non soltanto la generalità dell’opinione pubblica, ma anche la “cultura ufficiale”, ossia molti intellettuali, letterati, scrittori, giornalisti e dunque “colleghi” di Pasolini hanno accettato la sceneggiata del “frocio” che va in giro di notte a suo rischio e pericolo, ucciso da un ragazzino o, tutt’al più, da qualche altro balordo fascista e omofobo. Persino esponenti del Movimento gay hanno continuato per anni a sposare in maniera dogmatica la versione ufficiale, facendo finta di non vedere le sue evidenti contraddizioni.
Molti uomini di cultura, dunque, alcuni consapevolmente (per inimicizia verso Pasolini) altri inconsapevolmente, per conformismo, comodità o pigrizia mentale, hanno contribuito a depistare, in tutti questi anni, la ricerca della verità sulla morte di Pasolini.

Vediamo, ad esempio, un articolo di Umberto Eco apparso sull’ "Espresso", pochi giorni dopo il delitto, in cui assume un ruolo centrale, nella morte del poeta, la sua “diversità”. Dopo essersela presa con la società che “relega ai margini il diverso” e lo “costringe a tentare la sua ricerca in luoghi oscuri, dove c’è violenza, rabbia e paura”, il celebre intellettuale aggiunge che “certamente Pasolini avrebbe potuto permettersi di vivere la sua diversità altrove che non alla macchia. Può darsi abbia voluto continuare a farlo per orgoglio…”.
Articolo chiaro e lampante, non solo nel bollare come “diverso” un omosessuale, ma anche nel legare indissolubilmente la sua tragica fine a quella sua “diversità”. E, infine, il marchio della colpa: il peccato d’orgoglio, per cui Pasolini, pur essendo ricco e famoso, e che perciò si sarebbe potuto permettere di vivere e consumare la sua “diversità” alla luce del sole, ha scelto, invece, di farlo nell’oscurità e nel torbido, addirittura per sfida verso la società…

Questo articolo dell’illustre Umberto Eco sintetizza in maniera efficace il pensiero di molti intellettuali dell’epoca e anche di epoca successiva (ancora oggi molti la pensano più o meno allo stesso modo). Un altro filone di pensiero, molto diffuso soprattutto fra i letterati, è quello della morte “artistica” di Pasolini, secondo cui egli sarebbe “coerentemente” morto così come aveva vissuto: la sua fine, anzi, sarebbe addirittura un capolavoro artistico, un esempio di come il vero artista traduce l’arte nella vita. In questo filone c’è addirittura chi afferma che Pasolini non solo avesse ricercato la morte violenta, ma che l’avesse addirittura pianificata nei dettagli…

Vediamo alcuni esempi di questo aberrante pensiero:

Giuseppe Zigaina, pittore e amico di Pasolini, ha apertamente sostenuto in diversi suoi scritti, l’ultimo dei quali edito nel 2005 (dal titolo molto eloquente: Pasolini e la morte. Un giallo puramente intellettuale), che dalle opere di Pasolini si possono estrapolare dei segni inequivocabili in cui il poeta traccia le coordinate della sua morte violenta. Sicché, secondo Zigaina, siamo di fronte a una morte “liturgicamente organizzata da Pasolini stesso per costruirsi il proprio mito”.

Lo stesso ha fatto il poeta Dario Bellezza (vedi in questa sezione il topic “Tre libri su Pasolini”), nel suo breve saggio Morte di Pasolini del 1981, dove vengono riportati stralci di alcune poesie di Pasolini in cui verrebbe preconizzata la sua fine violenta in maniera straordinariamente simile a quanto realmente accaduto.

Nico Naldini, cugino e biografo del poeta, ha sostenuto che già molto prima dell’omicidio Pasolini si sarebbe “aggirato come uno spettro nella notte alla ricerca di un sesso estremo, impossibile da soddisfare senza violenza…”.
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Si potrebbe proseguire con tante altre “testimonianze” di analogo tenore da parte di letterati, alcuni anche amici di Pasolini: dal poeta Andrea Zanzotto agli scrittori e poeti Edoardo Sanguineti e Ferdinando Camon, a tanti altri.

Ammesso e non concesso che la ricerca di “sesso estremo” da parte di Pasolini corrisponda al vero (nessuno sa con certezza, infatti, quale fosse il suo comportamento durante gli incontri erotici mercenari), è evidente che tutto ciò, se anche fosse vero, non prova assolutamente nulla su come Pasolini stesso sia stato ucciso. Un uomo può cercare la morte tutti i giorni guidando un’automobile ad alta velocità e sperando di schiantarsi alla prima curva. E tuttavia può venire ucciso da un rapinatore sotto casa, dopo aver parcheggiato la macchina.

Ma è altrettanto evidente che tutte queste tesi sulla “morte per sesso” di Pasolini, se da un lato non provano nulla sull’omicidio, dall’altro contribuiscono a orientare l’opinione pubblica e a solidificare l’idea molto diffusa secondo cui, se proprio Pasolini non l’ha fatto apposta, quanto meno “se l’è andata a cercare”.



Pasolini e il sesso: un binomio considerato (a torto) indissolubile

Quanti scrittori omosessuali ci sono stati nella Storia? Tantissimi: da Marcel Proust a Oscar Wilde, da Thomas Mann ad André Gide e l’elenco potrebbe proseguire riempiendo un’intera pagina. Eppure solo l’opera di Pasolini (specialmente l’ultima) viene costantemente letta e interpretata mettendola esclusivamente in relazione con la sua omosessualità. Nessuno si è mai sognato di leggere la Recherche usando come chiave interpretativa esclusiva l’omosessualità di Proust. Altrettanto si può dire degli altri illustri scrittori succitati: l’omosessualità ha avuto certamente un ruolo di peso nelle loro vicende umane ed ha anche sicuramente condizionato le loro opere: però nessuno ha mai letto quelle opere solo ed esclusivamente alla luce di quel dato. Ciò è avvenuto incredibilmente solo per Pasolini…

Addirittura, anche l’opera del marchese de Sade (considerata un monumento alle perversioni sessuali) viene comunemente letta oggi anche come un tentativo di dire delle verità sulla natura umana, sulla società, e di essere, dunque, anche l’espressione di un pensiero.

A Pasolini, invece, non si è mai “perdonata” la sua omosessualità, non solo facendola diventare la chiave della sua morte, ma anche l’unica chiave interpretativa delle sue opere finali.

Ciò è particolarmente evidente per il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma e per il romanzo postumo, Petrolio. A queste due opere i critici hanno addirittura negato di essere, rispettivamente, un film e un romanzo. Si tratterebbe, piuttosto, di “confessioni pubbliche” del loro autore, nelle quali egli avrebbe voluto dare libero sfogo alle sue perversioni erotiche.

Il film Salò è stato interpretato dalla maggioranza dei critici come la spia di una disperazione personale o il sintomo di una deriva sadomasochistica, quando invece si tratta di un’opera complessa nella quale lo stesso Pasolini aveva chiarito quale fosse il significato del sesso:

…Nel mio film il sesso assume un significato particolare, ed è la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano, è la mercificazione del corpo umano, la riduzione del corpo umano a cosa, che è tipico del potere, di qualsiasi potere…Il Manifesto di Marx dice proprio questo: il potere mercifica i corpi, trasforma il corpo in merce…”.


In maniera non dissimile è stato interpretato il romanzo postumo di Pasolini, pubblicato ancora in forma di appunti, Petrolio. Un libro complicatissimo in cui si parla soprattutto del potere. Eppure i nostri critici più illustri vi hanno messo al centro, ancora una volta, le pulsioni erotiche “distorte” di Pasolini.

Sul "Corriere della Sera" del 1 marzo 2012, Pietro Citati scrive: “Ai tempi di Petrolio, Pasolini aveva quasi completamente perduto la squisita gioia erotica, che aveva dato tenerezza e morbidezza alle sue opere giovanili…Ora voleva andare molto oltre il suo eros giovanile: voleva essere posseduto, dominato, violentato. Voleva conoscere la vita nel momento della lacerazione e della morte…”.

Emanuele Trevi, nel suo libro dal titolo: Qualcosa di scritto. La storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini, considera Petrolio non un romanzo, ma la “cronaca di un’iniziazione”, un’opera che “può essere compresa solo da chi abbia familiarità con la violenza e soprattutto con la ritualità sadomaso…”.

Del resto, pochi giorni prima che Petrolio uscisse nelle librerie, "l'Espresso” aveva anticipato la pubblicazione di alcune pagine, scegliendo – naturalmente – quelle del Pratone della Casilina, in cui il protagonista, in una campagna nei dintorni della capitale, consuma venti rapporti orali consecutivi con venti “ragazzi di vita”. Ancora prima della sua uscita, dunque, era chiara l’ “impronta” di lettura che si voleva dare al romanzo, facendolo passare per un’opera dedicata al sesso.

E puntualmente “sessuo-centrica” fu la recensione, assolutamente negativa, uscita su “la Repubblica” dopo la pubblicazione del libro, a firma di Nello Ajello. Tale recensione arrivò a definire Petrolio come “un immenso repertorio di sconcezze d’autore, un’enciclopedia di episodi ero-porno-sadomaso, una galleria di situazioni omo ed eterosessuali, come soltanto dall’autore di Salò ci si può aspettare…”.

Eppure in Petrolio non ci sono solo pagine sconce (queste, anzi, sono una minima parte), ma ci sono tantissimi contenuti, soprattutto “politici”. C’è soprattutto il potere, mostrato in diverse forme: l’azione che il potere esercita sugli individui che lo detengono, penetrando nelle loro zone più intime, trasformandoli antropologicamente, arrivando a plasmarne i corpi, la gestualità, l’espressione, attraverso l’imposizione di modelli. Ma c’è anche il potere che agisce in maniera molto più banale, coinvolgendo non solo i politici ma anche gli intellettuali, gli artisti e i letterati, agendo sul loro naturale “desiderio di carriera”. E c’è infine il potere delle trame, quelle destinate a rimanere segrete, che esistono dappertutto, ma che in Italia fanno venire i brividi…

In Petrolio ci sono pagine e pagine che parlano del potere in tutte le sue forme e che vanno a toccare capitoli della Storia d’Italia che ancora oggi non sono stati chiariti, come quello del “finto incidente aereo” del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Si parla persino, come in un’allucinante premonizione, di una bomba fatta scoppiare alla stazione di Bologna. Eppure i nostri critici si sono concentrati unicamente sul capitolo del Pratone, estrapolandolo dal contesto e usando ancora una volta soltanto il sesso come chiave interpretativa dell’opera.

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Anche questa interpretazione “sessuo-centrica” delle opere di Pasolini, purtroppo, non fa che avvalorare la tesi della sua “morte per sesso” e ad accreditare come verità quella raccontata da “Pino la Rana”.



Le contraddizioni della versione ufficiale

La prima versione di Pino Pelosi, quella durata trent’anni, secondo cui a uccidere Pasolini fu lui da solo per reagire a un’aggressione a sfondo sessuale del poeta, evidenziava fin da subito delle vistose lacune.

In primo luogo, le condizioni pietose in cui venne trovato il corpo del poeta (mani spezzate, naso mozzato, orecchie strappate, genitali fracassati, ferite gravissime e fratture multiple al volto, alla testa e alla cassa toracica) e – per contro – nemmeno un graffio riportato da Pelosi stesso, soltanto una macchiolina di sangue sul giubbotto…

In secondo luogo, l’anello ritrovato vicino al corpo di Pasolini che sarebbe appartenuto a Pelosi: in pratica è come se l’assassino avesse voluto lasciare la propria firma prima di abbandonare il luogo del delitto…

Si prosegue, poi, con l’elenco delle lacune, considerando le numerose impronte trovate sul terreno che non appartengono soltanto a due persone e i solchi di ruote diverse da quelle dell’Alfa Gt di Pasolini. Nonché i segni dell’investimento, che dimostrano che la macchina non passò accidentalmente sul corpo del poeta, come sostenuto da Pelosi, ma cercò appositamente quella traiettoria per dare il colpo finale alla vittima già morente.

Vi sono poi delle testimonianze che la magistratura non ha mai voluto accreditare:

Quella del pescatore Ennio Salvitti, che raccontò a Furio Colombo, inviato della “Stampa”, che a picchiare Pasolini quella notte furono in tanti, almeno quattro o forse cinque, per una buona mezzora, e che il poeta durante il massacro chiedeva pietà e invocava continuamente la madre…

Quella del proprietario della taverna “Al Biondo Tevere”, dove Pasolini e Pelosi si sarebbero fermati per consumare un pasto veloce prima di andare all’Idroscalo. Il proprietario, però, ha riferito che Pasolini quella sera era in compagnia di un giovane “biondo e con i capelli lunghi”, mentre Pelosi all’epoca era moro con i capelli ricci…

Quella di un automobilista che vide l’Alfa di Pasolini ferma a fare benzina a un distributore automatico per poi ripartire seguita a breve distanza da una motocicletta, in direzione dell’Idroscalo…

Quella dei grandi amici di Pasolini, Ninetto Davoli e Sergio Citti, che hanno riferito che Pasolini conosceva già da diverso tempo Pelosi e lo frequentava: non si trattò quindi di un incontro casuale, Pelosi non fu “raccolto” da Pasolini in piazza dei Cinquecento, per la prima e unica volta la sera del 1 novembre, come riferito da Pelosi…
E, sempre come riferito dagli amici abituali del poeta, non risulta che egli fosse mai andato prima di quella sera all’Idroscalo di Ostia: i suoi incontri erotici avvenivano sempre nelle periferie della capitale, Pasolini non si spingeva mai così lontano.

A queste testimonianze, già note all’epoca dei fatti, deve aggiungersi quella recente del nipote del pescatore Ennio Salvitti, che al tempo dell’omicidio era un bambino, e che quella notte si trovava insieme al nonno e ricorda perfettamente tutto. Rintracciato nel 2010 dal giornalista Claudio Marincola, il nipote di Salvitti ha riferito che la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo c’erano i fari di una “seconda auto” che illuminavano la scena del delitto; che ci furono tante persone adulte, pescatori della zona e abitanti abusivi, che a un certo punto corsero a vedere il massacro; che i lamenti della vittima si udirono per molto tempo; e che molti, addirittura, prima che arrivasse la polizia, andarono a vedere il cadavere…
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Lo stesso Pelosi, poi, ha fornito altre quattro versioni diverse dell’omicidio. Nella famosa “seconda versione”, riferita nel 2005 durante la trasmissione televisiva Ombre sul giallo, finalmente egli ha ammesso di non essere stato da solo quella notte all’Idroscalo e ha parlato di altri tre uomini sbucati all’improvviso dal buio, che avevano all’incirca 45 o 46 anni, parlavano con accento “siciliano” o “calabrese”, e che gli dissero di “farsi i cazzi suoi”. Subito dopo, questi tre individui avrebbero iniziato a pestare Pasolini e mentre lo picchiavano a sangue, lo insultavano chiamandolo “sporco comunista”, “arruso” e “fetuso”. Queste ultime sono parole che Pelosi ha storpiato e che corrispondono al termine dialettale siciliano “jarrusu”, un insulto in verità poco usato anche in Sicilia, usato praticamente solo negli ambienti sottoproletari e malavitosi. “Jarrusu”, comunque, è un’offesa equivalente a “frocio”.

Successivamente, Pelosi ha fornito altre versioni, nel 2008, nel 2009 e, infine, nel 2011, nella sua autobiografia Io so…come hanno ucciso Pasolini. In queste altre versioni, gli uomini che hanno massacrato il poeta non sono più tre (e neppure “siciliani” o “calabresi”), ma sono in tutto cinque. Complessivamente, le auto presenti all’Idroscalo sono tre: oltre all’Alfa Gt 2000 metallizzata di Pasolini, una Fiat 1500 di colore scuro e un’altra Alfa Gt 2000 identica a quella di Pasolini. Inoltre, c’è una motocicletta Gilera. A bordo della Gilera sono giunti, quella notte, secondo le ultime due versioni di Pelosi, i fratelli Borsellino (due criminali comuni con legami nell’estrema Destra romana, minorenni all’epoca dei fatti, oggi deceduti).

Nell’ultimissima versione di Pelosi, quella del 2011, ha qualche parte anche un certo “Mauro G.”, sempre vestito elegantemente e pettinato con la riga in parte, dall’aria “misteriosa”. Secondo quanto avrebbe riferito a Pelosi uno dei fratelli Borsellino, questo “Mauro G.” era un militante del Movimento Sociale e frequentava la sezione romana di via Subiaco.

Tutte queste versioni di Pelosi contengono tantissime bugie, ma anche qualche verità o mezza verità. Per esempio, è ormai certo che i fratelli Borsellino in qualche modo c’entrano nella vicenda. Essi, quanto meno, rubarono le “pizze” del film Salò: e il furto, avvenuto a Cinecittà pochi giorni prima del delitto, fu commissionato da un certo Sergio Placidi, una specie di “pappone” che mirava a ottenere un riscatto. E’ altamente probabile, se non quasi certo ormai, considerando anche altre concordanti testimonianze, che le bobine del film furono usate come esca per attirare nella trappola Pasolini.

Risulta anche che i due Borsellino abbiano confidato a un infiltrato dei carabinieri di aver partecipato al massacro di Pasolini insieme a un certo “Johnny lo Zingaro” (noto criminale pluriomicida di origine bergamasca, rispondente al nome di Giuseppe Mastini, diciottenne all’epoca dei fatti e già omicida) il quale, a sua volta, in carcere si è più volte vantato di aver ucciso Pasolini. Anche l’anello che fu trovato vicino al corpo di Pasolini risulta appartenere a lui: ma questo, a ben vedere, non prova la sua presenza all’Idroscalo, dal momento che Pelosi e “Johnny lo Zingaro” erano amici e l’anello, quindi, potrebbe essere stato “ceduto” dallo “Zingaro” alla “Rana”.
Infine, secondo la testimonianza del proprietario del “Biondo Tevere”, che ha parlato di un giovane dai capelli biondi e lunghi, il ragazzo che quella sera ha cenato con Pasolini potrebbe essere stato proprio “Johnny lo Zingaro”.
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Quali che siano le verità, le bugie o le mezze verità, anche dall’incrocio con altre testimonianze e dalle ultime prove scientifiche effettuate nel 2005, risulta ormai praticamente assodato che:

1) Sul luogo del delitto, oltre a quella di Pasolini, c’erano altre due auto.

2) La notte del delitto, Pasolini non andava a rimorchiare ragazzi ma a incontrarsi con un ricattatore dal quale sperava di riavere le bobine del film Salò;

3) Pelosi e Pasolini si conoscevano da tempo;

4) Il ragazzo che la sera del delitto si fermò con Pasolini al “Biondo Tevere” non era Pino Pelosi;

5) Al massacro hanno partecipato almeno cinque persone, come risulta dalle tracce di Dna trovate sugli abiti di Pasolini e Pelosi, che evidenziano cinque profili genetici diversi, oltre a quelli degli stessi Pelosi e Pasolini.



Petrolio: un’altra verità è possibile

Rifiutata la pista del “delitto sessuale”, gli Autori del saggio avanzano l’ipotesi del “delitto politico”. In particolare, un ruolo fondamentale nella vicenda potrebbe aver avuto il romanzo Petrolio, al quale Pasolini stava ancora lavorando al momento della morte.
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Da un esame dei documenti custoditi al gabinetto Vieusseux, risulta che un intero capitolo non è stato pubblicato dai curatori delle edizioni einaudiane del romanzo.
Tale capitolo avrebbe dovuto contenere tre discorsi di Eugenio Cefis, che all’epoca in cui Pasolini scrive era il Presidente della Montedison e, in precedenza, era stato il successore di Enrico Mattei alla presidenza dell’Eni. Pasolini intendeva inserire quei tre discorsi, senza modificarli, in un capitolo del romanzo e, a tale proposito, li teneva insieme alle carte di Petrolio e dunque sarebbero stati accessibilissimi ai curatori della pubblicazione, che invece hanno deliberatamente deciso di omettere quel capitolo.

Non ci sono dubbi sul fatto che Pasolini considerasse fondamentali quei discorsi, volendo inserirli proprio a metà del libro. In un appunto scritto di sua mano, infatti, si legge:

Inserire i discorsi di Cefis: i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito (un po’ come i due episodi dei venti ragazzi ecc)”.

Del resto nell’introduzione al romanzo, scritta da Pasolini nella primavera del 1973 si può leggere:

Per riempire le vaste lacune del libro, e per informazione del lettore, verrà adoperato un enorme quantitativo di documenti storici che hanno attinenza coi fatti del libro: specialmente per quel che riguarda la politica, e, ancor più, la storia dell’Eni”.
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Non solo non è stato pubblicato il capitolo contenente i discorsi di Eugenio Cefis, ma, di un paragrafo, che avrebbe dovuto intitolarsi Lampi sull’Eni, sono state perdute le tracce. E secondo gli Autori del saggio, benché non se ne abbia la certezza, è altamente probabile che Pasolini avesse già scritto quel paragrafo (che parlava chiaramente di Cefis e, in particolare, dei suoi trascorsi nei partigiani durante la Resistenza) e che intendesse inserirlo. Infatti, in una pagina di Petrolio si legge:

Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il ‘misto’, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato ‘Lampi sull’Eni’, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria”.

Pasolini, dunque, in un passo del libro (che è stato pubblicato) fa un rinvio esplicito al paragrafo Lampi sull’Eni, proprio come se lo avesse già scritto. Di questo paragrafo, tuttavia, non è rimasta traccia, neppure tra le carte conservate al gabinetto Vieusseux.



Un personaggio-chiave: Aldo Troya alias Eugenio Cefis

Eugenio Cefis, dopo essere stato vicepresidente dell’Eni (quando alla guida dell’Eni vi era Enrico Mattei), nel 1967 ne divenne Presidente. Com’è noto, Enrico Mattei morì in un “misterioso” incidente aereo nel 1962 (“misterioso” si fa per dire, visto che ormai è stato accertato che l’aereo sul quale viaggiava fu sabotato). Cefis passò poi, nel 1971, alla presidenza della Montedison (per effetto della “scalata” da parte dell’Eni alla vetta del colosso della chimica italiana). Secondo una fonte del Sismi (i Servizi segreti militari) egli fu addirittura il fondatore e promotore della Loggia massonica P2.

Dei tre discorsi di Eugenio Cefis, che Pasolini avrebbe voluto inserire nel capitolo centrale di Petrolio, il più “rilevante” è senz’altro il primo, da lui tenuto agli aspiranti ufficiali dell’Accademia Militare di Modena, il 23 febbraio 1972, e pubblicato nel maggio di quello stesso anno sulla Rivista “L’Erba Voglio”, con il titolo: “La mia patria si chiama multinazionale”.

In quel discoro, Cefis parla apertamente del nuovo potere “globalizzato” e “trasversale” agli Stati nazionali, arrivando a paragonarlo a quello che era stato in passato il potere della Chiesa cattolica, temutissimo da tutti i Re e gli Imperatori proprio perché si fondava su un’organizzazione internazionale. Allo stesso modo, le imprese multinazionali e internazionali, nell’economia politica moderna, costituiscono una rete di potere internazionale che non solo attraversa e sovrasta gli Stati singoli, ma li riduce a “scatole vuote” (parola di Eugenio Cefis).

In futuro – dice Eugenio Cefis – i maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese…Se questo è il tipo di società verso cui ci stiamo avviando è facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza del cittadino allo Stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l’impresa multinazionale in cui si lavora…”.

E ancora: “…La difesa del proprio Paese si identifica sempre meno con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo a una modifica del concetto stesso di Patria, che probabilmente i vostri figli vivranno e sentiranno in modo diverso da voi…Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che esse pongono…”.

Cefis sta parlando ai futuri ufficiali dell’Esercito italiano e siamo all’inizio del 1972. A quei tempi, il tema del potere globalizzato delle multinazionali, a Sinistra era praticamente sconosciuto: se ne parlava solo in certe riviste molto estremiste (come “Rosso” o “Metropoli”) o nei volantini delle Brigate rosse.
Il tema, certamente, non era però sconosciuto a Pasolini, che vi fece più volte riferimento nei suoi articoli, richiamando anche il discorso di Cefis tenuto all’Accademia di Modena (che egli verosimilmente lesse sulla rivista “L’Erba Voglio”).

Quello che qui ora rileva, tuttavia, è che Pasolini fa di Eugenio Cefis un personaggio fondamentale di Petrolio, chiamandolo con lo pseudonimo di “Aldo Troya” e facendolo anche incontrare col protagonista principale, Carlo Valletti.

Ma, soprattutto, ai fini di questo saggio, rileva che Aldo Troya alias Eugenio Cefis viene chiaramente indicato in Petrolio come mandante dell’omicidio di Enrico Mattei. Infatti, in un passo del romanzo si legge:

In questo preciso momento storico (1° BLOCCO POLITICO), Troya sta per essere fatto Presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore”.

L’ipotesi avanzata da Pasolini in Petrolio, dunque, è che Eugenio Cefis si sia “sbarazzato” di Enrico Mattei per arrivare da solo ai vertici dell’Eni (cosa che di fatto avvenne cinque anni dopo la morte di Mattei).

A questa stessa conclusione, è giunto l’ultimo magistrato che si è occupato del caso Mattei, ossia il sostituto procuratore Vincenzo Calia, che nella sua richiesta di archiviazione delle indagini “per impossibilità di incriminare i colpevoli” (essendo essi già deceduti), nel 2003, ha allegato alla corposa documentazione raccolta e studiata anche la pagina di Petrolio che contiene il passo sopra riportato.



Enrico Mattei, Mauro De Mauro e Pier Paolo Pasolini: forse la stessa mano li ha uccisi…

Secondo il pentito “storico” di Cosa Nostra, Tommaso Buscetta, Enrico Mattei fu eliminato nel 1962 su commissione della mafia americana, perché con la sua politica di economia petrolifera (da Presidente dell’Eni) aveva danneggiato gravemente gli interessi degli Stati Uniti (e della mafia) in Medio Oriente. Cosa Nostra italiana, allora, attirò Enrico Mattei in Sicilia, a Catania. Qui, conoscendo la sua passione per la caccia, lo portarono a una battuta e, nel frattempo, qualcuno collocò un ordigno esplosivo all’interno del suo piccolo aereo personale, che poi precipitò a seguito dell’esplosione.

A una conclusione parzialmente diversa (diversa per ciò che attiene i mandanti dell’omicidio) arrivò Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano "L’Ora" di Palermo, misteriosamente scomparso (e mai più ritrovato) il giorno 17 settembre 1970. Secondo De Mauro, a commissionare l’omicidio di Mattei non era stata la mafia americana, bensì il vicepresidente dell’Eni Eugenio Cefis e, tramando nell’ombra, il suo referente politico Amintore Fanfani. I mandanti, e in ciò si conferma la versione di Buscetta, commissionarono l’omicidio a Cosa Nostra italiana (più palermitana, che catanese però).

Quella a cui era giunto De Mauro è praticamente la stessa conclusione alla quale era arrivato Pasolini, che attinse in parte alle medesime fonti di De Mauro e che forse era entrato in possesso di scottanti documenti che erano appartenuti al giornalista palermitano…

Anche per l’omicidio di Pasolini, dunque, una pista potrebbe essere quella “siciliana”. Non va dimenticato che pochi giorni dopo il delitto, il suo avvocato ricevette due lettere anonime in cui si riferiva di un’automobile targata Catania che avrebbe seguito l’auto di Pasolini la notte dell’Idroscalo. Lo stesso Pelosi, poi, in una delle sue tante versioni in seguito superate, aveva parlato di un’auto con targa “CT” presente sul luogo del delitto. Nella sua versione dei fatti del 2005, inoltre, egli parla di tre uomini con accento “siciliano” o “calabrese”…

Una stessa mano, allora – quella del potere politico-economico colluso con la mafia – potrebbe aver eliminato prima Enrico Mattei e poi quelli che avevano scoperto o si erano avvicinati molto alla verità su quel delitto: ossia Mauro De Mauro (scomparso a Palermo nel 1970) e Pier Paolo Pasolini, massacrato all’Idroscalo di Ostia cinque anni dopo.

***
Libro molto interessante, soprattutto perché contribuisce a mantenere vivo il dibattito sul delitto Pasolini. L’ho trovato, tuttavia, un po’ caotico nell’esposizione degli argomenti, che spesso vengono ripresi più volte nel succedersi dei capitoli, senza rispettare un rigoroso ordine espositivo (come invece piace a me: nei saggi, specialmente, esigo l’ordine nell’esposizione). Per questo, infatti, ho fatto molta fatica a riassumere gli argomenti dovendoli “setacciare” nei vari capitoli.

Per quanto riguarda, nello specifico, l’ipotesi di Petrolio come una possibile pista del delitto, naturalmente non ho elementi né per confermarla né per smentirla. La accetto come possibile insieme ad altre, nel senso che non mi sembra campata in aria ma neanche più credibile di altre piste politiche e complottiste.

C’è invece una parte del libro che non condivido affatto: quella in cui si vuole sganciare del tutto, con ostinatezza e in ogni suo aspetto, il delitto dalla sua componente “sessuale”, entrando per questo motivo in polemica anche con il Movimento gay (che per contro, però, altrettanto erroneamente secondo me, rifiuta in toto la componente “politica” dell’omicidio). A mio parere, il sesso c’entra almeno per l’odio in cui gli assassini hanno infierito sulla vittima. Sono d’accordo che non è un delitto “sessuale”, nel senso che Pasolini, anche secondo me, quella notte di ormai quarantadue anni fa non stava ricercando sesso, né estremo né “soft”. Però nessuno mi toglierà mai dalla testa che se non fosse stato omosessuale non lo avrebbero ridotto in quel modo, non avrebbero infierito sulla sua persona con quella violenza e quel disprezzo inauditi. Se si fosse trattato di un omicidio “soltanto” politico, come sostengono gli Autori di questo saggio, allora che senso avrebbe avuto il massacro dell’Idroscalo? Non bastava sparargli sotto casa o mettergli una bomba nell’auto?

Pasolini non è stato solo eliminato, come altri personaggi “scomodi” per il potere. Mattei è stato fatto precipitare con l’aereo. De Mauro è stato fatto sparire nel nulla. Pasolini, invece, è stato massacrato. E come cornice di quel massacro si è voluto costruire una messa in scena per screditarlo dopo averlo ucciso, per far vedere all’opinione pubblica che la sua era stata una morte da “pervertito”. Quindi, in un certo senso, si è voluto ammazzarlo due volte. Tutto questo, a mio parere, checché ne dicano gli Autori di questo saggio, c’entra – e molto – ancora più che con il sesso, con l’omofobia. E più con l’omofobia che con la politica.
Ultima modifica di Insight il ven 10 nov 2017, 12:27, modificato 2 volte in totale.
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Re: Frocio e basta

Messaggio da Omero »

Complimenti per la disamina. Fin dall'inizio l'omicidio Pasolini ha dato luogo a letture diversissime e, se possibile, ancora più tragiche nei loro risvolti più profondi, perché coinvolgevano scenari "fanta-politico-economici". quelli, per l'appunto che hai qui citato. E' un'altro dei misteri italiani di quegli anni che vanno da'70 agli '80, e che hanno avuto strascichi anche più tardi.
Come sempre le verità ufficiali arrivano per mettere una pietra tombale sulle vicende. C'è sempre la paura che i morti ritornino a gridare le loro verità. Come ha fatto Shakespeare che ha usato gli spettri per dire di quelle verità che non potevano stare sulle labbra dei vivi, pena la testa.
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Re: Frocio e basta

Messaggio da franz75 »

Complimenti anche da parte mia. Ricordo che all'epoca ci scornammo un poco sull'articolo di Capitta in morte di Pelosi, ma senza dubbio il caso della morte di Pasolini (indipendentemente da come la si pensi) resta davvero uno dei grandi misteri italiani. Cercherò di leggere questo libro che hai opportunamente segnalato e così ben presentato.
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Re: Frocio e basta

Messaggio da Insight »

Grazie a voi per gli apprezzamenti e l'interesse. Confidiamo negli "spettri"shakespeariani, allora, visto che coi magistrati finora ci è andata male... em_neutral
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