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...E allora mi hanno rinchiusa

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...E allora mi hanno rinchiusa

Messaggio da Insight »

Importante “libro-inchiesta” sui manicomi femminili, pubblicato nel 1977 dalla scrittrice Giuliana Morandini, e vincitore in quell’anno del Premio Viareggio Opera Prima per la Saggistica.

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Il libro raccoglie le drammatiche testimonianze, narrate in prima persona, da alcune donne rinchiuse in quattro manicomi italiani, a Udine, a Siena, a Nocera e a Roma, registrate su un nastro e poi trascritte nel libro, senza alcuna modifica. Ognuna delle testimonianze è preceduta da una breve presentazione della protagonista e da una descrizione del manicomio dove essa è rinchiusa, scritte dall’Autrice. L’inchiesta venne effettuata dalla Morandini negli anni 1975 e 1976. Complessivamente, le testimonianze raccolte e trascritte nel libro sono quarantasette.

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Per quanto diverse, le storie raccontate dalle donne rinchiuse si assomigliano tutte, rivelando alla loro base una realtà di forte emarginazione sociale e di violenza familiare. Quasi tutte queste donne provengono dalla classe sottoproletaria, alcune erano contadine, altre casalinghe o impiegate in lavori di fatica, altre ancora erano finite per strada a fare le ladre o le prostitute.

Quasi sempre alle loro spalle, prima del manicomio, c’è anche una storia di violenza: picchiate e maltrattate dai mariti o dai compagni, dai padri, dai fratelli o da altri familiari, o sbattute sulla strada e sfruttate. Alcune prima del manicomio sono state in carcere.

Non tutte sono state rinchiuse in manicomio perché a un certo punto hanno manifestato sintomi di grave squilibrio mentale: anzi, per lo più queste donne vi sono finite semplicemente perché avevano una crisi depressiva o un esaurimento nervoso, o perché hanno cominciato a bere o hanno tentato il suicidio. Altre, addirittura, solo perché sono rimaste incinte e non erano in grado di allevare e mantenere il bambino, per cui, una volta che hanno partorito, a queste madri è stato tolto il figlio e sono state rinchiuse in manicomio su richiesta dei loro familiari.
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Anche i manicomi dove le “malate” sono rinchiuse si assomigliano tra loro. Le cornici architettoniche di questi moderni “lager” sono spesso “imbarazzanti”: si tratta di antichi monasteri con qualche scialba aggiunta, oppure di grevi palazzi umbertini o di edifici littorii o di padiglioni del dopoguerra anonimi e squallidissimi.

Al loro interno c’è un’atmosfera “ovattata” e ogni sensazione che si prova, finanche l’odore, denuncia il corrompersi di qualsiasi fermento vitale. Gli sguardi delle ricoverate sono coperti da una patina opaca e sono rassegnati al vuoto. Le loro parole rimbalzano come echi atoni di un discorso interrotto e soffocato. Vi è poi una quiete strana, non naturale, che isola i rumori e li fa rimbalzare nella testa. Rumori che sono soprattutto quelli delle chiavi delle porte che si aprono, che molto spesso sono cancelli con le sbarre…

Per quanto negli anni Settanta la situazione nei manicomi fosse migliorata rispetto al passato, questi “ospedali” erano ancora opprimenti, erano ancora strumenti di repressione più che di cura, dove ai malati veniva negata la propria soggettività e libertà. Erano dei lager abbelliti, ma sempre dei lager. Non c’erano più le celle e i letti con le cinghie di contenzione e le camicie di forza, non c’era più il reparto degli “agitati”, i degenti non dovevano più indossare le mortificanti divise del manicomio come dei carcerati. All’interno degli ospedali psichiatrici erano comparsi i bar, ogni tanto si faceva qualche festa con musiche e balli e nei manicomi femminili c’erano anche i caschi per la messa impiega…
E poi c’era il famoso “articolo 4”, che consentiva ai pazienti giudicati “idonei” di uscire ogni tanto, per dei periodi, dall’ospedale, sempre con l’obbligo, però, di farvi ritorno.

Nonostante i miglioramenti, l’ospedale psichiatrico non aveva cessato la sua funzione “segregativa”, di isolamento del malato mentale dalla società, negandogli la possibilità di vivere una vita piena e libera. Si faceva ancora uso abbondante dell’elettroshock, si ricorreva ai bagni freddi e alla terapia con psicofarmaci che toglievano ogni vitalità ai malati, riducendoli a degli automi.

Ancora negli anni Settanta, chi entrava in manicomio era praticamente condannato a non uscirci più (salvo casi molto rari) e più che curato, veniva “calmato”, “sedato”, osservato e studiato dai medici come una specie di cavia da laboratorio. Il suo comportamento era analizzato e stigmatizzato in delle “diagnosi” incolori, anonime e spersonalizzanti, che lo bollavano come delle sentenze inappellabili: “schizofrenico”, “oligofrenico”, “distimico”, “asociale”, “depresso”, “eccentrico”, “euforico”, “paranoico”, “mentalmente debole”, etc…

Nelle donne gli effetti della repressione erano ancora più evidenti che negli uomini: infatti le devastanti terapie farmacologiche distruggevano completamente la “femminilità” delle ricoverate, sformando i loro corpi, cancellando gli attributi stessi di quella femminilità.

Ecco, infatti, tralasciando le peculiarità di ciascuna, una breve descrizione delle donne incontrate dalla Morandini, che vale per la maggior parte di esse: “…i capelli arruffati o pettinati senza grazia, flanelle grezze stropicciate, visi lavati ad acqua e sapone o invece caricati di trucchi beffardi, calzini bianchi corti, l’insieme reso rigido e gonfio dalle cure e dai loro effetti volutamente immobilizzanti…”.
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Infine, a titolo esemplificativo, riporto qui alcuni stralci di una testimonianza per ciascuno dei manicomi visitatati dalla Morandini. Ho scelto le storie più significative, nelle quali si può rispecchiare bene anche la maggior parte delle altre.


Ernestina, ventinove anni, rinchiusa nel manicomio “S. Osvaldo” di Udine:


“Da ragazza, papà e mamma mi facevano lavorare tanto, nei campi, nei prati…eravamo contadini…ero contenta di sposarmi, per me era il primo uomo, mi è piaciuto subito…ha voluto andare abitare con suo padre perché non aveva la mamma…allora beveva poco, poi ha cominciato a ubriacarsi, adesso è sempre ubriaco…”.

“Mio marito è falegname…in casa c’è miseria…lui vuole che lavori in campagna, che faccia in casa…e poi vuole stare con me nel letto, tutte le sere e anche di giorno…io non sempre ho tempo e voglia, sono tanto stanca…vuole tanti bambini…si ubriaca e io resto incinta…mi sono sposata nel 1967, sono quasi dieci anni…”.

“La prima bambina ha sette anni e va a scuola; quando l’ho avuta invece di andarmi il sangue giù mi ha fatto effetto dentro la testa…parto difficile, esaurimento nervoso, male alla testa…e ho dovuto ricoverarmi, ho lasciato la bambina a mia sorella che era di 14 giorni…sangue alla testa, confusione, tanti elettroshock, c’è la cartella scritta…”.

“Poi ho avuto la seconda bambina, va all’asilo…quando ho avuto la piccola, la terza, camminava ancora nel girello, mio marito si ubriacava e mi bastonava anche, per stupidaggini…sempre voleva venire a letto, io dovevo veder delle bambine…allora mi maltrattava e mi diceva di tutto, puttana, vacca…sono ammalata per causa di mio marito che mi ha sempre sfruttata in tutto…”.


Maria Pia, quarant’anni, rinchiusa nel manicomio “S. Niccolò” a Siena:


“Il mio bambino ha dieci anni e mezzo, l’ho avuto nel ’64, il 19 dicembre…sta a casa assieme al babbo, alla mamma e a mio fratello…”.

“Il padre del mio bambino è anche lui di Viterbo…è parecchio che non lo vedo…l’ho visto pochi giorni prima di venire qui l’ultima volta, per la strada, portavo a spasso il bambino, mi disse ciao e basta, non si è fermato…”.

“Quando ero di quattro mesi, mio fratello, quello che ora viene sempre e accudisce il bambino e gli sta dietro, mi disse: a casa non ti ci voglio, vai da qualche altra parte…”.

“Sono andata a Roma in una pensione vicino alla stazione Termini…non facevo niente, dormivo, pranzavo alla mensa dei ferrovieri, spendevo poco…i soldi me li mandavano la mamma e i fratelli…”.

“A partorire andai al San Giovanni…ho avuto tanto male…il bambino era piccolo, due chili e seicentocinquanta, alto quarantotto centimetri…Venne la mamma a trovarmi diverse volte all’ospedale…Sono stata poi una settimana in quella pensione dove ero stata quando ero incinta…Il bambino insieme a me, lo allattavo…”.

“Dopo ho detto alla mamma: non mi va più di stare qua, voglio tornare a casa…A casa stetti una mesata a letto…il parto mi aveva lasciato i nervi alle gambe…”.

“Mi ammalai il 9 maggio 1966…agitazione, non dormivo, non mangiavo dal dispiacere…Mi dicevo: perché ho fatto questo bambino? Mi sembrava una disgrazia…Non andavo d’accordo con la mamma, le rispondevo male…La mamma allora mi ha fatto rinchiudere qua dentro…”.

“Qui mi hanno legata, con il camicione ed i polsi…Mi facevano gli elettroshock, ero agitata, mi agitarono ancora di più…ho avuto anche la terapia con l’insulina, la fanno per tre mesi, ma siccome c’era pericolo che non mi svegliassi, a me la fecero solo per un mese e mezzo…La suora mi picchiava, mi dava colpi con le chiavi sulla testa…mi hanno anche rubato della roba, indumenti…”.

“Tornai a casa il 10 dicembre 1966, ma ci sono rimasta poco…Il 19 dicembre era la festa del bambino che compiva due anni…c’era una bottiglia di vino sul tavolo e io la bevvi…il babbo disse: perché beve? … Per fargli paura gli ho fatto una graffiatura alla mano…allora per paura che lo dicesse ai miei fratelli, che mi avrebbero dato le botte, andai alla stazione e salii sul treno…La mamma mi raggiunse e disse al capostazione: mia figlia non deve partire…Mi fecero scendere per forza, c’erano due guardie e mi portarono in questura…dissero alla mamma: che la vuole far rinchiudere ‘sta figlia o no? … la mamma rispose: fate come volete. Allora il 20 dicembre venni qua…così sono quasi nove anni che sto qui dentro…”.


Luciana, trentasei anni, rinchiusa nel manicomio “Materdomini” di Nocera Superiore:


“Sono nata a Cairano, in provincia di Avellino, lavoravo in campagna con mia madre…poi è successo che mi sono sposata, ho avuto una bambina…Non sono mai andata d’accordo con mio marito, ci siamo litigati, mi ha portata qua dentro e non m’ha voluto più venì a trovà…sono sei anni che sto aspettando la visita di mio marito…Mi sono sposata a Cremona…”.

“Mio marito quando ha sposato a me faceva il trattorista, poi si è messo a fare il bergamino attorno alle mucche…andava a femmine, ci piaceva il mangiare buono, lusso, divertimenti, la lira che si guadagnava non bastava, se li consumava tutti i soldi…”.

“La gravidanza non è andata tanto bene, allora mi fecero ricoverare per un mese all’Ospedale Maggiore, dopo mi portarono all’ospedale psichiatrico quindici giorni per rimettermi un poco…”.

“Fino a dieci mesi la bambina l’ho cresciuta io, da sola in casa, mio marito andava a lavorare, mio suocero andava a lavorare…”.

“Quando me ne andai via da mio marito, me ne andai con la bambina, sono stata quattro mesi con mia madre…Mio marito mi mandava diecimila lire al mese…Poi un giorno mi ha scritto che dovevo tornare a Cremona…Dopo pochi giorni sono venuti a prendermi e mi hanno portata qui con la bambina…dopo due giorni che stavo qui con la bambina, la bambina l’hanno portata via e l’hanno affidata alle suore di un istituto di Cremona…io non ho saputo più niente…”.


Felicita, trentanove anni, rinchiusa nel manicomio “S. Maria della Pietà” a Roma:


“Ho fatto la stiratrice sin da ragazzina, un lavoro molto faticoso…sono partita da settecento lire sino a duemilacinquecento al giorno, senza contratto…Il primo ricovero fu quando avevo venticinque anni…ero esaurita, scombussolata nella mente, delusione d’amore…mia mamma mi ha portata al Policlinico, dal Policlinico mi hanno portata qui…qui ci sono rimasta due mesi e mi hanno fatto gli elettroshock…dopo non connettevo, non ragionavo, mi prendeva la mania di persecuzione…dieci elettroshock erano obbligatori: mi facevano stendere sul lettino, mi facevano l’iniezione…una volta, volgendo la testa, ho visto una cui facevano l’elettroshock, l’ho vista tremare tutta sotto la scossa elettrica; l’ho sentita pure io la sensazione d’essere scossa…”.

“Uscita, sono stata in un’altra tintoria…in quella di prima non volevano più avere la responsabilità, sapevano che ero stata al manicomio…una si riambienta, ma gli altri sa come la pensano…”.

“Lavoravo…lui era vicino di negozio, abbiamo fatto amicizia, dall’amicizia al matrimonio…aveva dieci anni meno di me…la mamma sua diceva che era giovane per sposarsi…Il matrimonio è andato avanti tre anni e mezzo…abbiamo avuto due bambini, non li desideravo molto…”.

“Sono peggiorata dopo l’ultimo parto, ho sentito che la seconda mi impegnava troppo…mi sentivo ingolfata di lavoro…poi coi bambini ci vuole molta pazienza…”.

“Io ero remissiva, ma lui aveva anche i nervi, rompeva, picchiava…è finita che ho fatto lo sbaglio di buttarmi dalla finestra e lui non ha più voluto saperne di me…Mi hanno ricoverata al San Giovanni, ci sono stata cinque mesi…poi, siccome nessuno mi riprendeva a casa, mi hanno portata qui…sono qui da due anni e mezzo”.

***
Libro vero e shoccante in cui si dà voce diretta alle protagoniste: vittime, ancor prima che della segregazione e repressione dei manicomi, della discriminazione sessista e della violenza della nostra società maschiocentrica e patriarcale. Tutte le intervistate, infatti, scontano soprattutto il fatto di essere donne, condizione che le ha portate ad essere emarginate, maltrattate e infine rinchiuse.

Rimane senz’altro una lettura utile per capire e per rendersi conto di quanto sia stata importante la chiusura (o apertura, a seconda della parte da cui la si guardi) di quei “mostri istituzionali” che erano i manicomi. E non è certamente un caso che questo libro sia stato pubblicato esattamente quarant’anni fa, quando si discuteva molto di tale problematica, prima che venisse approvata e promulgata, nel 1978, la legge n. 180. Mentre le discriminazioni e le violenze contro le donne, purtroppo, ci sono ancora.
"Lo stolto continua a parlare mentre gli strumenti dicono molto più di questo, stai tranquillo e ascolta quello che non puoi esprimere" (andromeda57)
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Whiteshark
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Re: ...E allora mi hanno rinchiusa

Messaggio da Whiteshark »

Una lettura terribile, ma necessaria per comprendere almeno in parte alcune terribili realtà.
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Re: ...E allora mi hanno rinchiusa

Messaggio da Insight »

Eppure c'è ancora gente che pensa che sia stato un errore quello di chiudere i manicomi, che tristezza... :(

Li obbligherei tutti a leggere questo libro.
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