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Carlo Magno (Premio Campiello 1978)

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Carlo Magno (Premio Campiello 1978)

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Il Premio Campiello, nel 1978, fu vinto da Gianni Granzotto (1914-1985), giornalista (anche televisivo) e scrittore, con il suo saggio dedicato alla figura di Carlo Magno.

Come lo stesso Autore ha cura di precisare nella prefazione, non si tratta in questo caso dell’opera di uno storico, ma piuttosto di un “ritratto”, di un lungo viaggio alla scoperta di un personaggio avvolto nella leggenda, che a scuola certamente si studia, ma di solito in maniera piuttosto frettolosa e superficiale, e di cui in realtà sappiamo poco.


Un giorno a Ponthion

Il viaggio ha inizio veramente tanto, tanto tempo fa, poco dopo la metà dell’ottavo secolo dopo Cristo, in un mondo radicalmente diverso da quello attuale, sostanzialmente dominato da cinque poteri: Bisanzio, i Longobardi, gli Arabi, il Papato e i Franchi.

Bisanzio, a quei tempi, era una stella ormai spenta, che non era più in grado di dominare l’Occidente frantumato e bellicoso. I Longobardi, che erano stati i padroni dell’Italia per due secoli, si stavano consumando nel logorio del loro lungo dominio. Il Papato, al contrario, era ancora troppo debole.
Le forze emergenti erano senz’altro gli Arabi, che stavano portando la loro cultura e la religione di Maometto in Occidente, e i Franchi, il cui regno si estendeva fra i territori che oggi corrispondono a parte della Francia, del Belgio e della Germania, e che erano perennemente in guerra contro altre popolazioni barbariche: principalmente i Sassoni, i Bavari e gli Aquitani.

Erano tempi duri soprattutto per il Papato, costantemente minacciato dagli altri poteri più forti e che quindi doveva barcamenarsi, cercare alleati che lo proteggessero e garantissero la sua sopravvivenza, soprattutto dalla crescente minaccia dell’Islam, ma anche da quella dei Longobardi, che per fortuna si erano fermati a Ravenna, ma sempre tenevano sotto scacco Roma…
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Fu così che un giorno molto freddo d’inverno, il 6 gennaio dell’anno 754, Stefano II, un Papa fisicamente fragile ma molto colto e astuto, dopo aver affrontato un viaggio massacrante, lungo più di un mese, e aver attraversato le alpi innevate accompagnato da uno stuolo di carri e cavalieri, giunse stremato a Ponthion (in Francia), per inginocchiarsi davanti a Pipino, Re dei Franchi nonché padre di Carlo, chiedendogli protezione dai Longobardi, sempre più arroganti e minacciosi…

Carlo stesso, che allora era soltanto un ragazzino di nemmeno dodici anni, assisté a quell’incontro, in cui suo padre giurò solennemente di proteggere il debole Papa, inginocchiato ai suoi piedi. Ebbene, quell’incontro fu fatale per il giovanissimo Carlo: egli si sentì già allora, nonostante fosse poco più di un bambino, investito della missione di proteggere il vicario di Cristo in terra e al tempo stesso rimase più che affascinato, quasi “stregato”, dalla figura del Pontefice romano: fino a quel momento, infatti, gli avevano insegnato che l’unica virtù degna di rispetto fosse la forza; scoprire che esisteva, invece, un potere “spirituale”, “immateriale”, che non solo bisognava rispettare, ma che si doveva servire e al quale era giusto assoggettarsi, lo emozionò fino alle lacrime e segnò per sempre la sua vita.


Il Regno dei Franchi

Facciamo ora un balzo in avanti di quasi quindici anni: siamo alla fine di settembre dell’anno 768. Carlo adesso è un giovanotto prestante di ventisei anni. Da quando ne aveva sedici, il padre aveva iniziato a portarlo con sé nelle sue spedizioni militari contro gli Aquitani e i Sassoni, e qui il ragazzo aveva rivelato subito le sue notevoli qualità di guerriero: forte, abilissimo con la spada e, soprattutto, dotato di un coraggio straordinario. Tutto l’opposto del suo fratello più giovane, Carlomanno, piuttosto deboluccio e tentennante in battaglia.

In quei lontanissimi ultimi giorni di settembre, muore Re Pipino, a “soli” cinquantaquattro anni (metto tra virgolette il “soli”, perché in quell’epoca cinquantaquattro anni erano un’età più che rispettabile per andarsene all’altro mondo).
Il “vecchio” Pipino, pur avendo capito la differenza di temperamento dei suoi due figli maschi (le figlie femmine, ovviamente, non contavano nulla), decise di seguire la tradizione franca e di non fare differenze: morendo, lasciò il regno diviso a metà fra Carlo e Carlomanno. A Carlo toccò la parte settentrionale, a Carlomanno quella meridionale. Gran parte della bellicosa Aquitania, neanche a farlo apposta, venne lasciata proprio a Carlomanno, che oltre ad essere di indole debole, aveva soltanto diciotto anni…

Ma questo stato di cose non durò a lungo. Carlo, non appena incoronato Re, volle affrontare subito l’annosa “questione aquitana” e cominciò a pretendere dal fratello l’impegno e aiuti militari per mettere a posto una volta per tutte quella terra abitata da un popolo infido, che da sempre tormentava i Franchi e che neanche il padre era riuscito a placare. Ma tanto Carlo era una personalità forte e decisa, tanto indeciso e titubante era il fratello minore, che cominciò a promettere ma a procrastinare continuamente i suoi impegni…

Finché Carlo si stancò e durante una delle solite spedizioni nella sua parte di Aquitania, invase anche quella del fratello, infrangendo le clausole del testamento. Ma non gli bastò: si spinse oltre, occupò, senza nemmeno trovare resistenza, tutta la parte di regno del fratello. E il giovane Carlomanno, anziché contrastarlo, si riparò nel suo rifugio in Borgogna. Qui il ragazzo si buscò una febbre e morì a soli ventun anni, sollevando il fratello maggiore dall’ingrato compito di eliminarlo. Alla fine del 771, Carlo rimase così l’unico Re dei Franchi. Il suo regno durerà per altri quarantadue anni.


Cambia il vento

Oltre alla questione degli Aquitani (e a quella dei Sassoni), ancora più stringente era quella dei Longobardi, che, anche se un po’ “acciaccati”, erano pur sempre i padroni dell’Italia. Pipino aveva mantenuto la promessa di proteggere il Papa (infatti i Longobardi non si azzardarono mai a toccare Roma), ma si era guardato bene dall’intraprendere una guerra contro la potenza longobarda e soprattutto non aveva “pestato i pugni”, come aveva promesso a Papa Stefano II, per ottenere la restituzione al Papato di alcune città, tra cui Ravenna e Rimini, che, secondo il vicario di Cristo in terra, erano roba sua.

Pipino, insomma, aveva promesso, ma fatto pochino. Si era limitato a “proteggere”. Su questa stessa linea, voleva proseguire Berta, la Regina vedova di Pipino, nonché madre di Carlo e dello sfortunatissimo Carlomanno. E data la giovane età di Carlo, nella parte iniziale del Regno la ex Regina ebbe un certo rilievo nell’evolversi delle vicende politiche, anche perché Carlo adorava sua madre e ne subiva, almeno inizialmente, l’influenza.

Così, la vedova Berta convinse Carlo, in un primo momento, a risolvere la questione longobarda pacificamente, ossia cercando un’alleanza suggellata dal matrimonio tra egli stesso ed Ermengarda, l’affascinante figlia di Desiderio, Re dei Longobardi. Carlo, ancora giovane e succube della madre, accettò. Ripudiò la sua prima moglie franca e fece venire ad Aquisgrana, la capitale del Regno dei Franchi, la bella Ermengarda. Infine, addirittura la sposò, con nozze celebrate a Magonza. Tutto per far contenta la madre.

Ma fu un matrimonio assai breve. Il nuovo Papa, Stefano III, ricordò a Carlo gli impegni che aveva preso suo padre Pipino e che ora toccava a lui onorare. Giunse al punto di scomunicare Carlo, che entrò in una crisi di indecisione, a quanto pare l’unica della sua vita: da una parte c’era la madre, per la quale provava amore filiale e devozione, dall’altra il Pontefice, ossia il rappresentante di Cristo in terra, che lo aveva affascinato fin dai tempi dell’incontro di Ponthion, quando era soltanto un ragazzino…

Indovinate un po’ chi scelse alla fine… ;)

Dopo soltanto qualche mese di matrimonio, Carlo, nonostante la contrarietà della madre, ripudiò Ermengarda e la rispedì a Pavia, facendola dichiarare malata dai suoi medici di corte: uno smacco intollerabile per Desiderio.
Il nuovo Re dei Franchi fece poi quello che non aveva osato fare suo padre: mosse guerra contro i Longobardi. Correva l’anno 773, la storia dell’Occidente cominciava a cambiare…


La guerra contro i Longobardi

La guerra contro i Longobardi scoppiò in settembre di quell’anno ed ebbe il suo primo e già decisivo scontro nell’attuale territorio piemontese. Qui, all’imbocco della valle di Susa, a Novalesa, i Longobardi avevano fortificato la frontiera settentrionale del loro grande regno e qui attendevano l’esercito di Carlo per uno scontro frontale. Ma l’atteso scontro non ci fu; o meglio, non si svolse come se l’erano immaginato i Longobardi…

La battaglia detta “delle Chiuse” fu un autentico capolavoro di strategia militare, tra i più clamorosi di tutto il Medio Evo. Carlo, anziché avanzare col suo esercito nell’unico spazio ritenuto geograficamente percorribile dagli esperti militari di Desiderio, ossia il territorio a oriente della Dora Riparia, puntò a sud, percorrendo una zona impervia, fitta di selve, fosse e spaventosi dirupi che cadevano a picco tra le montagne.

Preceduto dagli esploratori e dai geografi, l’esercito di Carlo, in poco tempo, seguendo un itinerario ritenuto impossibile, aggirò la formidabile fortificazione longobarda e giunse alle spalle dell’esercito nemico, cogliendolo di sorpresa. I generali longobardi, accortisi troppo tardi della “folle impresa” che erano riusciti a compiere i Franchi, cercarono di riorganizzare il loro esercito alla meno peggio. Ma lo sforzo fu inutile: nella piana fra Giaveno ed Avigliana, le truppe di Carlo sbaragliarono gli sgomenti Longobardi, davanti allo loro fortificazione divenuta impotente. Quella battaglia suonò la campana a morto del dominio longobardo in Italia.
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Quel che rimase dell’esercito longobardo fatto a pezzi nella battaglia delle Chiuse, si ritirò. Ma le truppe carolinge inseguirono gli sbandati senza pietà, fino a giungere alle porte di Pavia, la capitale del Regno dei Longobardi. Carlo non attaccò la città di Desiderio, ma la pose sotto assedio. La fece letteralmente “murare”, chiudendo tutte le vie di uscita. Nessuno poteva né entrare né uscire da Pavia, che fu così presa per fame, riuscendo tuttavia a resistere all’assedio fino all’inizio dell’estate del 774.

Nel frattempo, Carlo distaccò frange del suo esercito e attaccò tutte le altre principali città longobarde, che, una alla volta, dopo una debole resistenza, caddero e si consegnarono a lui: Novara, Vercelli, Ivrea, Milano, Brescia, Bergamo, Treviso e Verona. Da ultimo, Carlo inviò una spedizione a La Spezia e conquistò in pochi giorni tutta la costa ligure.

Nel giugno del 774, finalmente, Desiderio, ridotto alla fame e con la città decimata da un’epidemia di peste, si arrese. In soli nove mesi, Carlo cancellò la bicentenaria potenza longobarda e divenne il nuovo padrone dell’Italia.


Nuove conquiste

Diversi mesi prima della caduta di Pavia, era chiaro l’esito della “campagna d’Italia”: Carlo aveva vinto. Così, la Pasqua del 774 fu davvero memorabile per lui. Giunse a Roma e venne accolto dal popolo festante, che lo celebrò come il liberatore dell’Italia. Il nuovo Papa, Adriano I, romanissimo per stirpe e nobiltà, appartenente a una delle famiglie più potenti dell’Urbe, abbracciò Carlo come un fratello e lo accompagnò in giro per la città, in testa alle milizie, con uno stuolo di gonfalonieri che portavano gli stendardi dei rioni e i vessilli dell’esercito.

Carlo aveva infine mantenuto la promessa di Pipino. Il Papato era finalmente libero dalla minaccia longobarda; e con il fortissimo Re dei Franchi protettore del vicario di Cristo, la Roma papalina poteva dormire sonni tranquilli.
Papa Adriano e Carlo divennero sinceri amici. A trentadue anni, nel pieno delle sue forze, Carlo riprovò, durante quella Pasqua, in parte, la stessa emozione che aveva provato a Ponthion vent’anni prima, con la differenza che adesso era lui in persona ad assumere il ruolo di difensore della cristianità in tutto l’Occidente. D’ora in poi, chiunque avesse voluto dare fastidio al Pontefice, avrebbe dovuto vedersela con lui.
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Ma il Re dei Franchi non si fermò certo qui, altrimenti non sarebbe diventato “Magnus”, grande. I suoi quarantacinque anni di regno furono quarantacinque anni di guerre. Mai ci fu pace durante il suo dominio, che egli cercò costantemente di espandere. A ovest, conquistò tutto il territorio dell’attuale Francia e si spinse oltre i Pirenei, giungendo in Spagna e conquistando Barcellona. A est, occupò tutta la Germania e andò oltre, spingendosi fino in Boemia e in Moravia. A sud, dall’Italia si spostò verso i Balcani. Sfidò Bisanzio, stappandole i territori dell’attuale Friuli-Venezia Giulia e dell’Istria. Ma non osò sferrare l’attacco decisivo, che avrebbe comportato l’attraversata del Mediterraneo: Carlo aveva orrore del mare e non possedeva nemmeno una flotta. Questo, se vogliamo, fu l’unico punto debole della potenza carolingia. Del resto Bisanzio, con l’avvento dei Franchi, perdette ogni influenza in Occidente e rinunciò a riconquistarla. Tra le due potenze si stabilì così un perfetto equilibrio: una dominava l’Ovest, l’altra l’Est del mondo.


Il massacro di Verden

Nell’estate del 782, vi fu l’episodio più discusso della storia di Carlo Magno, che getta ombra sulla sua luce. Durante una spedizione in Sassonia, suo cugino Thierry, figlio di una sorella di Berta, cadde in un’imboscata e fu trucidato insieme ai suoi uomini nella selva di Teutoburgo.

Tremenda fu la vendetta di Carlo, che si recò personalmente alla testa del suo esercito in Sassonia, per punire i ribelli. Li massacrò a Verden, ma la vittoria militare non placò la sua ira. Fece rastrellare tutti gli abitanti, compresi donne e bambini, e li condusse in una vasta radura, alle porte della città. Qui venne installato una specie di patibolo di legno e lui stesso, insieme a un monaco, vi salì sopra e tenne un breve discorso: i prigionieri dovevano rinnegare la loro religione pagana e inchinarsi davanti alla Croce di Cristo, altrimenti sarebbero stati uccisi.

Più di 5.000 prigionieri sfilarono sotto il patibolo e circa 4.500 preferirono morire, piuttosto che convertirsi al cristianesimo. Salirono uno alla volta sulla forca e, a un cenno di Carlo, la scure del boia si abbassò sulla loro testa. Il massacro si protrasse per tre giorni, dall’alba al tramonto. E alla fine la radura alle porte di Verden era cosparsa di teste mozzate.


L’incoronazione

Carlo venne incoronato Imperatore la notte di Natale dell’anno 800, a Roma, nella Basilica di San Pietro. Come narrano le cronache dell’epoca, la cerimonia fu imponente. Più di mille candele ardevano sopra l’altare della Confessione, formando un enorme candelabro a forma di croce. I riflessi di quelle fiamme risplendevano sugli ori e gli argenti che rivestivano le architravi e sulle colonne di marmo che sostenevano il tetto della basilica (naturalmente, non c’era ancora il “cupolone”).

Tra le colonne delle navate erano appesi magnifici tappeti di porpora e drappi istoriati che rappresentavano le vite dei santi o figure di animali, aquile, leoni, liocorni, pavoni e ippogrifi. Gli arredi erano sfarzosissimi, ricamati di pietre luccicanti. Mosaici, pitture, marmi, laminature d’oro e d’argento coprivano le pareti e gli altari. Le vampe delle mille candele accese spargevano ovunque riverberi scintillanti, portando la grande letizia della luce dei misteri della notte in cui Cristo era sceso sul mondo.

Migliaia di fedeli si accalcarono all’interno e fin sulle porte spalancate in ogni angolo della Basilica, proni sulle ginocchia quando Carlo fece il suo ingresso vestito con la candida toga di Patrizio dei Romani.

A posare la corona di Imperatore sul capo di Carlo, davanti alla croce risplendente di mille candele, non fu il suo grande amico, Papa Adriano I, ma Papa Leone III, che da qualche anno gli era succeduto sul soglio pontificio. L’incoronazione non fu soltanto un atto di riconoscenza “pubblico” della grandezza di Carlo, ma anche una sorta di ringraziamento privato di Papa Leone, perché Carlo lo aveva difeso contro una congiura interna, salvandogli la vita e il trono di Pietro. Ancora una volta, il figlio di Pipino aveva mantenuto fede alla solenne promessa di proteggere il rappresentante di Cristo tra gli uomini.

Dopo l’incoronazione, Carlo venne citato in tutti i documenti ufficiali come “Magnus” e il suo Impero, con la benedizione del Papa, che passerà alla Storia come “Sacro Romano Impero”, durerà, sotto la sua reggenza, per altri tredici anni. Carlo, infatti, morì ad Aquisgrana (che nonostante i fasti di Roma rimase sempre la “sua città”), il 28 gennaio dell’814, a quasi settantadue anni (era nato il 2 aprile del 742).
Se i cinquantaquattro anni di Pipino erano un’età “rispettabile”, i suoi settanta e rotti, per quei tempi, erano un’età “veneranda”, paragonabile ai novanta di oggi.


Fu veramente un grande?

Com’era, dunque, Carlo Magno?

Del suo aspetto fisico abbiamo pochissimi ritratti, qualche descrizione scritta e, soprattutto, una statuetta in bronzo dorato che lo ritrae a cavallo e oggi conservata al museo del Louvre.

Era un uomo forte, fisicamente prestante, più alto della media dei suoi tempi (possiamo figurarcelo intorno al metro e settanta). Le braccia molto robuste, il collo taurino. Fulvo di capelli e con due baffoni, senza barba.

Un abile guerriero e stratega militare. Coraggiosissimo in battaglia. Amava combattere, ma non per questo dobbiamo pensare male di lui. Quei tempi erano così, la guerra accompagnava costantemente la vita degli uomini. Per i figli maschi era assolutamente normale andare in guerra e, assai spesso, morire giovani in battaglia.
La sua più grande qualità, in campo militare e politico, era la capacità di prendere decisioni. Carlo non tentennava mai, decideva tutto in pochissimo tempo ed era molto sicuro di sé. Attaccava il nemico sempre per primo.

Era spietato, cattivo? Certo, in qualche occasione lo fu, avrebbe potuto essere più clemente. Ma dobbiamo pensare a un’epoca in cui, in generale, la vita umana contava davvero poco. E, per giunta, Carlo era un uomo che riteneva, in assoluta buona fede, di essere stato scelto da Dio per difendere il rappresentante di Cristo in terra e per far trionfare in tutto l’Occidente la religione cristiana. Il bene era Cristo, tutto il resto era il male, era il diavolo, che andava combattuto e schiacciato senza pietà. Questo era il suo modo di pensare e che gli fu inculcato fin dalla più tenera età.
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Non fu un appassionato amatore. Ebbe tante mogli e concubine, ma ne amò soltanto una: l’ultima, Liutgarda, che però non gli dette nemmeno figli.
Ebbe anche una numerosissima prole (otto maschi e undici femmine). Non amò i suoi figli maschi, nei quali vide sempre dei potenziali rivali, e riversò il suo affetto sulle femmine (ritenute innocue), che fece circondare di attenzioni.
Ebbe un unico grande amico in tutta la sua lunga vita: Papa Adriano I, per il quale, dopo la morte, fece scolpire una lapide nella Basilica di San Pietro, ancora oggi visibile.

Rimase fondamentalmente un barbaro, incolto e rude nei modi. Ma, nonostante questo, capì la grande importanza dell’istruzione e della cultura. Volle che tutti i fanciulli sudditi del suo Impero, sia maschi che femmine, ricevessero un’istruzione e si può dire che, in un certo senso, fu l’inventore delle scuole pubbliche. Egli stesso, nella sua corte di Aquisgrana, si circondò di dotti e sapienti e cercò di istruirsi; anche perché, pur essendo un “Magnus”, provò sempre un senso di inferiorità di fronte ai Romani e ai Bizantini, proprio per la loro raffinata cultura.

Ma, soprattutto, Carlo aveva capito che forgiare una cultura comune, che fungesse da collante per tutti i popoli da lui assoggettati, sarebbe stata la chiave per una lunga durata del suo dominio. Anche per questo fu un “grande”.
"Lo stolto continua a parlare mentre gli strumenti dicono molto più di questo, stai tranquillo e ascolta quello che non puoi esprimere" (andromeda57)
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Anni 80? No, grazie
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