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Breve storia del movimento femminile in Italia

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Breve storia del movimento femminile in Italia

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Nel 1978, uscì per gli Editori Riuniti un importante ancorché breve saggio storico di Camilla Ravera (1889-1988), donna antifascista e dirigente del Partito comunista, dedicato al movimento femminile.

Muovendo dall’assunto di Friedrich Engels, secondo cui in una società il grado di emancipazione della donna è la misura naturale del grado di emancipazione generale, il libro riflette sulla condizione femminile nella società italiana, ripercorrendo le tappe fondamentali del cammino di liberazione, dal XIX secolo fino agli anni Settanta del Novecento, senza dimenticare che, appunto, quanto più elevata è la posizione sociale della donna e tanto più civile e avanzata deve considerarsi la società medesima; mentre, viceversa, la discriminazione di genere e la sudditanza della donna all’uomo sono inequivocabili sintomi di inciviltà e arretratezza.

Ecco, in maniera ancora più schematica di quanto non sia nel libro, i contenuti fondamentali.


L’Ottocento

In Italia, nel XIX secolo, la condizione della donna è di spaventosa arretratezza rispetto all’ Inghilterra, ai Paesi del nord Europa e agli Stati Uniti. Mentre in queste nazioni già agli inizi del secolo nascono i primi movimenti di emancipazione femminile, in Italia la donna vive ancora confinata entro le pareti domestiche e non partecipa in alcun modo ai processi di produzione, al mondo del lavoro, e di conseguenza è automaticamente esclusa anche dalla vita sociale e politica.

Ciò si deve principalmente al fatto che l’Italia, fin verso la fine del secolo, è un Paese che fonda ancora, quasi esclusivamente, il proprio sistema economico sulla produzione agricola. I campi da lavorare sono molto lontani da casa, i contadini uomini si alzano prima dell’alba per raggiungere il luogo di lavoro e rincasano dopo il tramonto. La donna, di conseguenza, deve rimanere a custodire il focolare domestico, occupandosi delle faccende casalinghe o facendo talvolta lavori di cucitura e ricamatura: ma sempre da sola, isolata, senza avere la possibilità di comunicare e di socializzare, di formare gruppi con altre donne.

Per capire quanto esclusa dalla vita sociale sia la donna italiana dell’Ottocento, basta considerare che essa non partecipa al Risorgimento, alla lotta per la conquista dell’unità d’Italia: la donna del Risorgimento è, al massimo, madre o sorella di eroi maschi, ma non è mai essa stessa un’eroina. Ciò a differenza di quanto era accaduto in Francia, durante la rivoluzione borghese della fine del secolo precedente, dove le donne avevano partecipato attivamente alla lotta contro i privilegi e le ingiustizie sociali insieme agli uomini.
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L’arretratezza economica del nostro Paese, che per la gran parte dell’Ottocento non è ancora industrializzato, determina l’esclusione della donna dai processi di produzione e conseguentemente il suo isolamento sociale. Ma un altro fattore di arretratezza, da non sottovalutare, è quello religioso, dal momento che la religione cattolica nell’Ottocento era già profondamente penetrata, ormai da secoli, nel tessuto sociale del nostro Paese, molto di più che in altre nazioni.

Tutte le religioni, senza alcuna eccezione, subordinano la donna all’uomo. Il Cristianesimo delle origini, a differenza delle altre confessioni religiose, coinvolgeva largamente le donne: abbiamo innumerevoli esempi, infatti, di donne martiri cristiane.

Ma quando il Cristianesimo, da religione dei poveri e degli oppressi diventa religione di Stato e di potere, la donna viene abbassata di rango e subordinata all’uomo, come in tutte le altre religioni. Con lo sviluppo della dottrina cristiana e cattolica, la subordinazione della donna all’uomo diventa un principio fondamentale del diritto canonico, tutt’ora vigente.


L’ingresso delle donne (e dei fanciulli) nel mondo del lavoro

L’ingresso delle donne nei processi produttivi, in Italia si verifica solo dopo l’unificazione, nei primi anni Settanta dell’Ottocento. La prima industria a svilupparsi, nel Nord, è quella tessile. Ed è qui che fin da subito vengono reclutati, dai proprietari degli opifici, sia donne che fanciulli, per il semplice motivo che la loro manodopera viene retribuita in maniera irrisoria ed è perciò assai conveniente ai capitalisti. Negli stabilimenti di tessitura della Lombardia, del Piemonte e del Veneto, le donne e i bambini (sia maschi che femmine, di età compresa fra i cinque e i dodici anni), non diversamente da quanto era accaduto in Inghilterra cinquanta-sessanta anni prima, vengono fatti lavorare in condizioni raccapriccianti, assoggettati a turni di lavoro massacranti, di 15-16 ore giornaliere, comprese le ore notturne, sistemati in locali angusti, degradati, privi di aerazione e scarsamente illuminati, per dei salari da fame, che corrispondono più o meno alla quarta parte di quelli degli uomini adulti, peraltro già molto bassi.

Donne e fanciulli vengono poi largamente impiegati nell’industria estrattiva, nell’industria dell’abbigliamento, nelle manifatture dei tabacchi e anche nell’industria meccanica, venendo tuttavia, in quest’ultimo settore, adibiti a lavori di supporto, come la pulizia dei locali o altri servizi che talvolta non sono nemmeno retribuiti.

Dappertutto, il lavoro si svolge al limite della sopravvivenza fisica (e molte volte, anzi, il limite viene superato), le condizioni igieniche, sanitarie e ambientali sono paurosamente degradate e i salari non sono sufficienti neppure a comprare un pezzo di pane per la giornata.
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Contestualmente, sia al Nord che al Sud, le donne entrano nella produzione agricola. In tutto il Paese, esse lasciano finalmente le loro case e corrono a lavorare nei campi, negli oliveti, nelle risaie, negli agrumeti; e anche qui sono sfruttate quasi come schiave e retribuite assai meno dei loro colleghi maschi.

Verso la fine del secolo, le donne entrano anche nel ramo impiegatizio e trovano, tuttavia in una percentuale molto bassa, occupazione sia nei settori privati che nella pubblica amministrazione. Anche qui la retribuzione è molto più bassa rispetto a quella maschile. Le donne, inoltre, sono escluse dalle “carriere di concetto”, da incarichi direttivi e di responsabilità, e non hanno alcuna possibilità di carriera o progressione economica.

Possiamo dire che alla fine dell’Ottocento le donne italiane sono penetrate in quasi tutti, o tutti, i settori produttivi. Il loro reclutamento, inoltre, avviene in maniera sempre crescente. Non solo perché la manodopera femminile è scarsamente retribuita, ma anche perché i padroni scoprono spesso che le donne sono più abili degli uomini nei lavori dove occorre meticolosità e precisione, e perché sono più miti, più facilmente assoggettabili e malleabili, e creano, in genere, meno problemi degli uomini.


Le prime lotte

Quasi contestualmente al loro ingresso nei processi di produzione, le donne iniziano le prime lotte per gli aumenti di salario e la riduzione degli orari di lavoro. In questa primissima fase non si pone ancora una “questione femminile” specifica e le donne si limitano a fiancheggiare gli uomini negli scioperi e nelle agitazioni, spesso repressi duramente dalla forza pubblica, con spari sulle folle dei dimostranti, caduti e feriti.

Tuttavia, già nel 1874 abbiamo un primo esempio di sciopero tutto femminile: a Roma e a Firenze scioperano in contemporanea le sigaraie, chiedendo la riduzione dell’orario a 12 ore e l’aumento del salario.
Ma le prime operaie a costituirsi in una loro lega autonoma sono le tessitrici di Varese, che nel 1876 organizzano scioperi in maniera sistematica. Anche le operaie tessili di altre città del nord Italia iniziano a scioperare autonomamente, arrivando, a Milano, a scioperare anche per 28 giorni di seguito nel 1892.
Negli anni Novanta iniziano ad agitarsi le zolfare siciliane, che lottano anche per i diritti dei fanciulli impiegati nelle miniere di zolfo in condizioni disumane, lavorando sotto terra anche per 10 ore di seguito e trasportando pesi fino a 35 chili.

A poco a poco, in tutta Italia, in ogni fabbrica, le donne entrano in agitazione, fanno scioperi, a fianco degli uomini e anche da sole.
Contemporaneamente, la lotta coinvolge anche le contadine, sia al Nord che al Sud. Negli anni Ottanta e Novanta, si consuma la lotta valorosa delle mondine della Val Padana che costituiranno d’ora in poi sempre un’avanguardia nel movimento delle donne lavoratrici.
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Assai dure e cruente sono le prime lotte delle donne e i traguardi conseguiti piuttosto esigui. Qualche aumento del salario e, in alcuni casi, la conquista del tetto massimo delle 10 ore di lavoro giornaliere.
Il risultato più importante ottenuto, almeno formalmente, è la promulgazione nel 1907 della prima legge dello Stato che disciplina il lavoro delle donne e dei fanciulli, ponendo un freno agli abusi, un limite all’orario di lavoro, una regolamentazione dei turni di lavoro notturni e un miglioramento delle condizioni sanitarie e ambientali.
Tuttavia, la legge verrà scarsamente applicata o elusa, e dappertutto le donne dovranno continuare a lottare, anche semplicemente per ottenere l’applicazione di quanto già previsto dalla legge.

A livello politico, l’unico partito che in questa prima fase di lotta si fa carico dei problemi delle donne è il Partito socialista, che già nel 1906 costituisce nel suo seno una “Lega socialista per la tutela degli interessi femminili”.
Tuttavia, i socialisti stentano a collegare i problemi della donna lavoratrice con quelli più ampi, che riguardano l’inserimento della donna nella società civile e in politica.

Qualche anno più tardi, un gruppo di donne socialiste fonda quello che può essere considerato il primo movimento politico femminile in Italia, ossia la “Lega promotrice degli interessi femminili”. Tale movimento, fondato a Milano da Anna Maria Mozzoni, considera la donna non soltanto una lavoratrice, ma un soggetto che deve partecipare alla vita sociale e politica, in condizioni di uguaglianza giuridica con l’uomo. Non solo riduzione dell’orario di lavoro e aumento del salario, ma anche diritti civili e politici.

Ma, a testimonianza di quanto siano ancora poco maturi i tempi in Italia per un’emancipazione sociale della donna, si consideri che quando, nel 1910, Anna Kuliscioff, una rivoluzionaria russa sfuggita alle persecuzioni zariste e compagna di Filippo Turati, chiede di inserire nel programma del Partito socialista il diritto di voto alle donne, riceve un secco rifiuto dal suo uomo e da tutti i dirigenti del partito.


La Prima guerra mondiale

La Grande guerra del 1915-18 produce notevoli ripercussioni sulla condizione delle donne. E’ infatti necessario sostituire gli uomini partiti per il fronte, sia nel lavoro agricolo che in quello industriale. Le donne, anzitutto, accorrono in gran massa nei campi. La guerra, infatti, toglie al lavoro agricolo 2,6 milioni di uomini, sicché a lavorare la terra rimangono 2,2 milioni di uomini adulti, 1,2 milioni di bambini-ragazzi e ben 6 milioni di donne.

La manodopera femminile si sostituisce a quella maschile anche nell’industria meccanica leggera, per la produzione di detonatori, spolette, diaframmi, proiettili.
Ma col protrarsi del conflitto si rende necessario l’impiego di donne anche nell’industria pesante; in tal senso vengono emanate leggi speciali e circolari ministeriali. In una circolare del 1917 si legge: “Laddove lo sforzo non sia eccessivo e l’attrezzatura supplisca all’abilità professionale, si usino donne”.
Cresce così di anno in anno il numero di donne impiegate negli stabilimenti militari, ausiliari e non ausiliari, di produzione bellica: dalle 23 mila unità occupate nel 1915, si arriva alle 200 mila nell’ottobre del 1918.

Un altro settore fortemente condizionato dalla produzione bellica è quello dei lanifici e cotonifici, considerando l’enorme fabbisogno di tessuti per uniformi, indumenti militari, coperte da campo, sacchi a pelo e rifornimenti vari. Le industrie tessili incrementano notevolmente la loro produzione e assumono in massa donne, ragazzi e bambini.

Le crescenti esigenze della produzione a sostegno dello sforzo bellico determinano un costante aumento dell’impiego di manodopera femminile e infantile e un notevole peggioramento delle condizioni di lavoro. Nel 1917 si rende necessaria l’emanazione di leggi speciali per porre qualche limite agli orari eccessivi, in particolare agli orari notturni, e per regolare la vigilanza igienica e sanitaria, nonché per disciplinare i salari.
Le leggi, tuttavia, hanno scarsa applicazione e gli abusi costringono le donne a entrare ancora una volta in lotta. A Torino, già nell’agosto del 1915 scioperano per il salario 20 mila cucitrici. Negli anni successivi seguono l’esempio delle lavoratrici torinesi, le filatrici e le magliaie di Piacenza. Nel 1917, ancora soprattutto a Torino, le lavoratrici scendono in piazza a fianco degli operai maschi per manifestare per il salario, per il pane, per l’aumento dell’indennità del carovita e contro la guerra che sta logorando il Paese da ormai due anni.


Il Partito comunista

All’inizio degli anni Venti muove i suoi primi passi il Partito comunista d’Italia, nato da una scissione dai socialisti. Il partito di Bordiga, Gramsci e Togliatti mette subito al centro la “questione femminile”. Su indicazione della III Internazionale, che aveva istituito al suo interno un “Segretariato internazionale femminile”, presieduto da Clara Zetkin, il Partito comunista italiano costituisce una sezione femminile presso la segreteria centrale alla quale aderiscono immediatamente molte compagne.
Su L’ Ordine nuovo, il primo quotidiano comunista, fondato da Antonio Gramsci, in un articolo apparso il 10 marzo 1921 e intitolato Il nostro femminismo, si legge che lo scopo del nuovo movimento femminile è quello di “liberare sia l’uomo che la donna da ogni servitù economica, di porli nella condizione di scegliere quelle specie di produzione verso cui si sentono più capaci, restituendo ad entrambi i generi la vera libertà di fronte alla propria natura, tenendo presente che l’uomo e la donna hanno nella vita una funzione loro propria, hanno nella loro natura dei propri valori fisici, intellettuali e sentimentali: si tratta, dunque, di porre l’uno e l’altro in condizioni tali che ognuno possa liberamente svolgere, manifestare e utilizzare tali valori a beneficio proprio e della collettività”.

Gramsci in persona incarica proprio Camilla Ravera (l’Autrice del presente saggio) di curare la pubblicazione, sul quotidiano torinese L’Ordine nuovo, di una rubrica settimanale intitolata La Tribuna delle donne, che affronta soprattutto i problemi delle donne lavoratrici, riportando notizie anche dagli altri Paesi.
A Roma, invece, presso la segreteria centrale del partito, viene curata la pubblicazione di un quindicinale denominato La Compagna, che si occupa delle problematiche femminili inserendole in un contesto politico più ampio: finalmente si pensa alle donne non più soltanto come a delle lavoratrici, ma anche come a dei soggetti protagonisti, insieme agli uomini, della vita sociale e politica.

Sempre a Roma, nel marzo del 1922, si tiene la I Conferenza nazionale delle donne comuniste, presieduta da Antonio Gramsci, che fissa i principi, le direttive e le norme fondamentali del movimento femminile comunista.

In moltissime città, sia del Nord che del Sud, nascono negli anni successivi dei comitati locali costituiti da donne e collegati con la segreteria centrale del partito, con il fine di realizzare una rete fra tutte le donne comuniste, lavoratrici e non.

Ma il nuovo impegno delle donne viene spazzato via con l’avvento del fascismo, che a partire dal novembre del 1926 soffoca ogni residua libertà, scioglie il Partito comunista e sopprime tutte le sue pubblicazioni. Inizia così, per le donne comuniste, la lunga notte della clandestinità.


Il fascismo

In Italia, l’avvento del fascismo stronca il progresso della donna che si verifica nella maggior parte degli altri Paesi dopo la Prima guerra mondiale. Il regime fascista, infatti, spezza il movimento generale e progressivo del popolo e spinge indietro la donna di decenni.

Sotto il fascismo, la donna è nuovamente respinta e segregata nelle faccende di casa e nell’ignoranza di tutto. Viene cacciata ed esclusa dagli impieghi, dalle professioni e persino dalle scuole. Nel 1927, una circolare esclude le donne dall’insegnamento delle lettere e della filosofia nei licei. Nel 1938, un decreto che disciplina l’assunzione nei settori pubblici e privati limita al 10 % il numero di posti disponibili per le donne.
Le numerose associazioni femminili istituite dal regime hanno il preciso scopo di incoraggiare le donne all’unica funzione sociale che viene loro riconosciuta: quella di badare alle faccende domestiche, di fare figli e di dedicarsi ad opere di assistenza e caritatevoli. Il compito delle donne, come più volte dichiarato da Mussolini, è quello della “massima fecondità per il rinvigorimento e l’accrescimento della stirpe”. Su questa stessa linea si collocano le associazioni femminili cattoliche, con l’unica differenza che esse spingono maggiormente per un impegno delle donne nelle “opere di bene”.

Per le poche donne che rimangono a lavorare, si ripresentano i problemi della fine dell’Ottocento: ovunque salari da fame, notevolmente inferiori a quelli degli uomini, e turni di lavoro massacranti. Per fare solo alcuni esempi, a Trapani, nel 1927, per la vendemmia, i raccoglitori maschi percepiscono 1,40 lire all’ora, le donne 65 centesimi. Ad Anzio, nel 1928, per i lavori di zappatura gli uomini sono pagati 16 lire al giorno, le donne 8 lire. Non meglio va nel Nord, dove i salari delle operaie, mediamente, sono inferiori del 45 % rispetto a quelli degli uomini. Alla Fiat, nel 1929, gli operai qualificati percepiscono 110 lire alla settimana. I manovali specializzati 98 lire. I manovali semplici 90. Le operaie donne addette alle macchine sono pagate 68 lire alla settimana. Le operaie manovali, senza compiti particolari, percepiscono 62 lire.
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Il fascismo, tuttavia, non spezza la volontà di lotta delle donne lavoratrici, che fin dai primi anni della dittatura protestano e scioperano, opponendo al fascismo, in certi casi, una resistenza eroica. Già nel 1921, le operaie, insieme ai colleghi uomini, partecipano a dure e sanguinose lotte contro la violenza degli squadristi e diverse cadono uccise. Nel 1924, a Molinella, le spigolatrici scioperano e restituiscono per protesta la tessera del Fascio. Nello stesso anno scioperano le tessitrici milanesi, bolognesi e del salernitano. Nel 1925, vi sono agitazioni fra le tabacchine del Leccese. A partire dal 1927, inizia la dura lotta delle mondine del Vercellese, che prosegue fino al 1931, con agitazioni e scioperi soffocati anche nel sangue. In questo periodo, esce a Torino un foglio clandestino del Partito comunista intitolato Risaia, che fiancheggia l’eroica lotta delle mondariso.

Contestualmente, è forte l’impegno delle donne anche nella politica attiva, sul fronte dell’antifascismo clandestino. Diverse donne antifasciste vengono incarcerate o confinate per la loro attività. Tra di esse la stessa Camilla Ravera, condannata da un Tribunale speciale fascista e reclusa e confinata dal 1930 al 1943.


La Resistenza

La guerra di liberazione del 1943-1945 è il secondo Risorgimento d’Italia. A differenza del primo, che aveva respinto il concorso popolare nella lotta per l’unità d’Italia, il nuovo Risorgimento per la liberazione dal nazifascismo coinvolge largamente le masse popolari, è una lotta di tutto il popolo oppresso e dunque anche delle donne.

Fin dal novembre del 1943, le donne sono presenti nei partiti che compongono il Comitato di Liberazione Nazionale. Esse si riuniscono segretamente a Milano e gettano le basi per un’organizzazione femminile aperta a tutte le donne, di ogni ceto sociale, di ogni fede politica e religiosa, che vogliano partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione.

Si formano così i “Gruppi di difesa della donna”, con il compito iniziale di assistere i combattenti per la libertà: essi raccolgono viveri, indumenti, medicinali per gli uomini che si sono rifugiati sulle montagne, svolgono funzioni di collegamento con le città, portano informazioni e ordini da una brigata partigiana all’altra, svolgendo compiti di “staffetta”. Nelle scuole e nelle fabbriche svolgono funzioni di propaganda per la lotta partigiana e azioni di sabotaggio contro la produzione bellica.

Ma con gli scioperi del marzo del 1944, le donne organizzate nei Gruppi di difesa entrano direttamente in lotta. A Forlì, a Parma, a Modena, esse protestano in massa, chiedono viveri, esigono la cessazione delle deportazioni e dei massacri. A Torino assaltano insieme agli uomini i depositi di legno e di carbone. In queste manifestazioni e azioni di protesta cadono eroicamente le prime donne della Resistenza.

L’arrivo della primavera del 1944 segna un momento di ascesa nella lotta delle donne per la liberazione. I Gruppi di difesa costituiscono le formazioni delle “Volontarie della libertà”. Si tratta di vere e proprie squadre armate e militarizzate, composte esclusivamente da donne, che salgono sui monti a dar man forte ai partigiani uomini.
Le Volontarie partecipano attivamente alla lotta contro i tedeschi e i fascisti, studiano e preparano azioni di guerriglia e sabotaggio, collaborano coi GAP, i partigiani, e le SAP.
Il primo distaccamento di Volontarie si costituisce in Piemonte, accanto alla formazione garibaldina Eusebio Giambone, il secondo a Genova.
In seguito, le organizzazioni delle Volontarie si costituiscono in tutte le province del nord Italia.

Innumerevoli sono gli esempi di eroismo delle donne partigiane e lungo l’elenco delle cadute in azioni di guerra o fucilate, anche dopo essere state sottoposte a ignobili torture. A partire dal settembre del 1943, con la spontanea partecipazione delle donne alle eroiche “Quattro giornate” di Napoli, fino all’aprile del 1945, in ogni città italiana le donne versano il loro contributo di sangue, insieme agli uomini, per far finalmente trionfare la libertà, la giustizia e la democrazia.


Il dopoguerra

La lotta partigiana, che coinvolge largamente le donne, segna un punto di svolta nel cammino verso l’emancipazione femminile, che riceve un rinnovato impulso dopo i vent’anni di buio fascista. Già nel 1944, dopo la liberazione di Roma, si costituisce l’UDI (Unione Donne Italiane), che rapidamente si dirama in tutte le direzioni, dal centro al meridione. Dopo la liberazione di tutto il Paese, l’UDI assume carattere e ampiezza di organizzazione nazionale e inizialmente raccoglie le donne aderenti a tutti i partiti dell’ex CNL (comuniste, socialiste, democristiane, liberali e azioniste).

L’UDI, sull’onda dell’entusiasmo della lotta partigiana, reclama subito il diritto di voto per le donne e lo ottiene addirittura prima della liberazione, con un decreto del governo Bonomi che porta la data del febbraio del 1945.

Ma, a liberazione avvenuta, si verifica purtroppo la prima rottura nel movimento femminile italiano: le donne democristiane e liberali lasciano l’UDI e costituiscono associazioni femminili proprie: il CIF, creato dalla Democrazia cristiana, e la Lega nazionale femminile, creata dal Partito liberale (una seconda rottura si avrà nei primi anni Sessanta, quando anche le donne socialiste lasceranno l’UDI).

Le associazioni femminili democristiane e liberali non hanno alcuna risonanza nella vita nazionale e non riescono a collegarsi con vaste masse femminili, non rappresentano che gruppi ristretti di dirigenti senza associate, assenti dai problemi della nazione e delle donne.

Ben diverso, invece, è l’impegno delle associazioni femminili clericali. L’Azione cattolica, diretta dal pontefice attraverso gli assistenti ecclesiastici regionali e le commissioni episcopali, dai vescovi attraverso le giunte diocesane e dai parroci di tutte le città e i paesi d’Italia, organizzano associazioni femminili per fascia di età. La “Gioventù femminile”, in particolare, inquadra in associazioni differenziate le fanciulle e le ragazze: le Piccolissime (che arrivano fino a cinque anni), le Beniamine (dai sei agli undici anni), le Aspiranti (dagli undici ai tredici), le Giovanissime (dai quattordici ai diciotto), le Effettive (dai diciotto ai trenta). Ognuna di queste organizzazioni ha una stampa propria: Squilli d’innocenza per le Piccolissime, Squilli argentini per le Beniamine, Squilli d’aurora per le Aspiranti, Squilli di resurrezione per le Effettive.
Vi sono poi periodici più specifici: Squilli studenteschi per le studentesse medie, Squilli di consolazione per le ammalate, Squilli di luce, in scrittura braille, per le ragazze non vedenti.

Le associazioni clericali femminili, attraverso un’organizzazione capillare, penetrano in profondità nel tessuto sociale italiano e hanno il preciso scopo di diffondere la propaganda anticomunista, frenando il processo di rinnovamento del Paese e di emancipazione della donna. Esaltano la figura della donna “angelo del focolare domestico” o quello della “donna-bambola”, priva di ogni interesse ai problemi della vita reale. Tuttavia, circa 2 milioni e mezzo di donne italiane sono influenzate da questa stampa, che mira a conservare nelle donne le vecchie posizioni di indifferenza e assenteismo sociale e politico, di passiva accettazione delle situazioni e degli avvenimenti, di cieca sottomissione ai poteri dominanti.
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Nonostante la grave spaccatura nel movimento femminile e l’azione frenante delle associazioni cattoliche, le donne si presentano compatte alla loro prima prova elettorale, partecipando in gran numero alle elezioni comunali del 1946: il 53 % dei chiamati alle urne è costituito da donne e la percentuale delle votanti è dell’81 % . Buoni i risultati anche per quanto riguarda l’elettorato attivo: circa 2 mila donne sono elette nei consigli comunali di tutta Italia e alcune, poi, diventano assessori e sindaci.

Gli altri importantissimi appuntamenti elettorali del 1946, ai quali partecipano in massa le donne, sono il referendum istituzionale del 2 giugno e le elezioni per la Costituente repubblicana in luglio: 22 donne entrano nell’Assemblea e partecipano alla stesura della Carta costituzionale della Repubblica Italiana.

La Costituzione del 1948, che sancisce al più alto rango delle fonti legislative l’uguaglianza giuridica fra l’uomo e la donna e il principio della parità di retribuzione a parità di lavoro, costituisce il traguardo più alto mai raggiunto dagli inizi della lotta per l’emancipazione femminile.
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Purtroppo, però, è necessario constatare fin da subito che i principi formalmente sanciti dalla Costituzione sono largamente disattesi. Ciò risulta particolarmente evidente nel mondo del lavoro, dove, ad esempio, pur essendo proclamata l’uguaglianza tra i generi, risulta che le donne disoccupate vengono iscritte negli uffici di collocamento con un grado inferiore a quello degli uomini, avendo così molta più difficoltà a trovare lavoro.

Non solo: ma in barba alla Costituzione, che sancisce l’uguaglianza fra i sessi, rimangono ancora in vigore le leggi fasciste che limitano l’assunzione di donne.
Ma, soprattutto, resta ancora molto forte il divario nelle retribuzioni. Se durante il fascismo le retribuzioni femminili industriali mediamente corrispondevano al 50 % di quelle degli uomini, negli anni del dopoguerra esse arrivano al 70 % e rimangono dunque ancora notevolmente più basse. In agricoltura, le retribuzioni femminili corrispondono al 75 % di quelle maschili. Negli impieghi privati, le donne, a parità di mansioni, ricevono ancora una retribuzione più bassa, che corrisponde all’85 % di quella dei colleghi maschi. Solo nel pubblico impiego, a partire dal 1948, viene di fatto applicata la parità di retribuzione.

Ancora una volta, allora, le donne entrano in lotta, con rivendicazioni e scioperi. A Torino, a Milano, a Genova, in Emilia Romagna e in Toscana. Ma anche nel sud Italia: nel 1948-49, ad esempio, intraprendono una lunga lotta le gelsominaie di Milazzo. Sono mille donne, di età compresa fra i nove e i cinquant’anni, occupate a raccogliere gelsomini da luglio a settembre alle dipendenze degli agrari locali. Lavorano dall’una di notte alle otto del mattino, cioè quando il fiore è bagnato dalla rugiada. Sono pagate a cottimo, 50 lire al chilogrammo: e occorre raccogliere 13.500 gelsomini per fare un chilo. Una brava gelsominaia, che lavora senza posa tutta la notte, riesce a raccogliere 3 chili di fiori e si porta a casa appena 150 lire, con la schiena rotta e le mani gonfie. Dopo un anno e mezzo di lotte, nel 1949 le raccoglitrici di gelsomini riescono ad ottenere un cottimo di 90 lire al chilogrammo.

Ma quello delle gelsominaie è soltanto un esempio. Nel dopoguerra, tutto il meridione è in lotta per migliorare le misere condizioni di lavoro nelle campagne e le contadine combattano a fianco degli uomini.

Nel centro e nel meridione, le coadiuvanti, le mezzadre, le colone chiedono – e talora ottengono – l’abolizione di forme servili di lavoro, come il bucato e altri servizi da prestare alle famiglie padronali, e l’abolizione delle regalie; reclamano case igieniche, acqua potabile non troppo distante dall’abitazione, concimaie razionali, strade praticabili, risanamento delle borgate con opere di fognatura, illuminazione, ricostruzione; e infine rivendicano l’assistenza ostetricia e farmaceutica, e scuole e asili per i bimbi.

Al Nord, infine, una delle lotte più eroiche è quella delle mondine della Val Padana, che nel 1950 riescono ad ottenere un aumento del salario, ma purtroppo a carissimo prezzo: a Molinella, durante una dimostrazione, 52 mondine sono ferite a bastonate dalla polizia e una di esse, Maria Margotti, di trentaquattro anni e madre di due figli piccoli, viene uccisa da uno sparo.


Gli anni Sessanta

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, in Italia si verifica la “seconda industrializzazione”, pomposamente esaltata dalla stampa di governo come il “miracolo economico”, che pone nuovi problemi e un cambiamento di prospettiva nell’impegno del movimento femminile. La donna, infatti, entra sempre più massicciamente nel mondo del lavoro, con la conseguente necessità non solo di tutelarla in quanto lavoratrice, ma anche di attuare delle misure che le consentano di realizzare la sua funzione di madre e di educatrice dei figli, senza dover rinunciare al lavoro e alla vita sociale, come accadeva nell’Ottocento e durante il fascismo.

Le nuove battaglie del movimento femminile (senza abbandonare quelle vecchie, che sono ancora necessarie) diventano quelle per l’istituzione degli asili nido pubblici, per l’astensione dal lavoro durante il periodo di gestazione e dei primi mesi dopo il parto, per i permessi di allattamento, per ottenere il divieto di licenziamento e di lavoro notturno durante i primi anni di vita del bambino e per il riconoscimento del lavoro casalingo, che spesso viene a gravare come un vero e proprio secondo lavoro soltanto sulle spalle della donna.

Verso la fine del decennio, invece, si assiste all’irruzione, a Sinistra, dei movimenti “femministi” o “ultrafemministi” (in gran parte importati dagli Stati Uniti), che sull’onda delle contestazioni studentesche (cui peraltro partecipano in massa anche le studentesse) creano un nuovo “antagonismo sociale”, concentrandosi specialmente sulle questioni di libertà morale e sessuale delle donne, ponendosi talvolta in una posizione estrema, di vero e proprio conflitto contro il genere maschile (una posizione, questa di alcune delle femministe post-sessantottine, che la Ravera non condivide: secondo lei la donna non deve essere “contro” l’uomo né sostituirsi all’uomo, ma essere “insieme” all’uomo, con parità di diritti sia formale che sostanziale, e nel rispetto delle diversità naturali e biologiche).


Gli anni Settanta

Tuttavia, anche sotto la spinta delle nuove organizzazioni femministe, il movimento femminile giunge negli anni Settanta ad importanti conquiste, come la legge che disciplina lo scioglimento del matrimonio per divorzio e la vittoria al referendum indetto per l’abrogazione della legge medesima nel 1974, nonché l’emanazione di nuove norme che disciplinano il diritto di famiglia nel 1975.

Il nuovo diritto di famiglia attua finalmente, anche a livello di legge ordinaria, l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, prevede che il governo e l’indirizzo della famiglia e la patria potestà sui figli vengano affidati congiuntamente al padre e alla madre e fissa la regola generale del regime patrimoniale di comunione dei beni fra i coniugi.

Ampio spazio nel decennio è occupato dalle discussioni e dai dibattiti molto accesi sul problema dell’aborto. Una delle nuove battaglie delle donne, infatti, è quella di ottenere una legge che disciplini l’interruzione volontaria della gravidanza, non certo per utilizzare l’aborto come uno strumento di controllo delle nascite, ma per riconoscere alla donna il diritto di scegliere in piena coscienza e libertà, alla luce del sole e in condizioni di salute e sicurezza, di essere o non essere madre e di poter disporre liberamente del proprio corpo.

Al momento della stesura di questo saggio, che arriva fino a giugno del 1977, la legge sull’aborto, dopo essere stata approvata alla Camera, naufraga al Senato. Il problema, dunque, rimane ancora aperto e si preannuncia di non facile soluzione.


Considerazioni conclusive

Dopo aver ripercorso per sommi capi un secolo di storia del movimento femminile, è corretto chiedersi se nel nostro Paese la donna abbia effettivamente conseguito un buon grado di emancipazione sociale. Il che, ricordando la lezione di Engels, equivale a chiedersi se la società italiana della fine degli anni Settanta possa essere annoverata fra quelle civilmente più progredite.

La risposta, tutto sommato e senza esagerazioni, è più negativa che positiva, soprattutto se confrontiamo l’emancipazione della donna italiana con quella raggiunta dalle donne degli altri Paesi industrializzati e democratici, dove il genere femminile è maggiormente inserito nella società, nella politica, nel mondo del lavoro, nei ruoli dirigenziali e di responsabilità anche ad alto livello.
In Italia, per contro, si stenta ancora a riconoscere alla donna una funzione sociale paritaria a quella dell’uomo, che non sia soltanto quella di essere moglie e madre.

Pesano purtroppo, e scontiamo ancora, il forte ritardo con cui la donna ha fatto ingresso nei processi produttivi, i vent’anni di fascismo (che non solo hanno rallentato il cammino verso l’emancipazione, ma lo hanno regredito) e l’azione frenante del fattore religioso e delle forze reazionarie nemiche del progresso.

Vero è che, specialmente nell’ultimo decennio, sono stati conseguiti importanti traguardi e che, finalmente, alle ultime elezioni politiche, quelle del 1976, vi è stato un notevole ingresso delle donne in Parlamento: ben 61 sono state elette nelle due Camere, che sono ancora poche ma praticamente il doppio rispetto alle 31 che erano state elette nelle precedenti consultazioni elettorali del 1972 (i 61 seggi femminili nel nuovo Parlamento del 1976 sono così ripartiti: 45 al Partito comunista, 10 alla Democrazia cristiana, 2 al Partito repubblicano, 2 al Partito radicale, 1 al Partito socialista, 1 a Democrazia proletaria).

Tuttavia, va detto che anche a Sinistra permane ancora (e questo è un problema molto vecchio) una seria difficoltà a ben comprendere l’esigenza e il significato della partecipazione femminile alla vita generale della società. Ancora si fa fatica a immettere il problema dell’emancipazione del lavoro nella più ampia problematica della totale ed effettiva emancipazione e liberazione della donna.

In tal senso, secondo l’ormai quasi novantenne Camilla Ravera, in futuro dovrà essere compiuto un progresso qualitativo e quantitativo, e i movimenti femminili, che nel 1977 si stanno troppo frammentando, dovranno sforzarsi di recuperare unità e coesione, e di penetrare a fondo con la loro azione di erosione progressista non solo nel mondo del lavoro, nelle fabbriche e negli uffici, ma anche nelle case, nelle scuole e nelle famiglie.
"Lo stolto continua a parlare mentre gli strumenti dicono molto più di questo, stai tranquillo e ascolta quello che non puoi esprimere" (andromeda57)
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Anni 80? No, grazie
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