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Il prigioniero

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Insight
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Il prigioniero

Messaggio da Insight »

Libro uscito nel 2003, scritto dall’ex brigatista Anna Laura Braghetti con la collaborazione della giornalista e scrittrice Paola Tavella, dal quale è stato liberamente tratto il film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte (anch’esso del 2003).
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La storia del sequestro Moro raccontata “dall’interno”, da una delle protagoniste della vicenda: la Braghetti fu infatti una dei quattro brigatisti che abitarono nell’appartamento di via Montalcini 8, durante i cinquantacinque giorni, in cui si trovava la prigione di Moro. Gli altri, com’è noto, furono Mario Moretti (che andava e veniva), Prospero Gallinari e Germano Maccari.

Libro che non aggiunge nulla a quello che già si sapeva dai vari processi, che non affronta minimamente i famosi punti oscuri della vicenda e che, anzi, avvalora la tesi puramente “istituzionale”, secondo cui le Brigate rosse agirono da sole e non vi fu alcuna interferenza da parte di “organismi esterni”, servizi segreti, “poteri deviati”, eccetera…

Persino la scoperta del covo di via Gradoli (il 18 aprile), per la Braghetti non fu pilotata, ma del tutto accidentale, e l’allagamento fu dovuto alla mera distrazione della “compagna” Balzerani, che dimenticava spesso i rubinetti dell’acqua aperti…
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Il racconto della Braghetti, dunque, non è utile a fare chiarezza sul caso Moro, ma solo per ricordare e rivivere quel tragico avvenimento: da questo punto di vista, anzi, è una lettura molto interessante.

Emergono anzitutto i temperamenti dei quattro carcerieri di Moro.

La Braghetti, che all'epoca dei fatti non aveva ancora compiuto venticinque anni, si autodescrive come una ragazza insicura, piena di paure e incertezze, però molto abile a fingere verso l’esterno: al punto che l’idea che i suoi compagni avevano di lei era esattamente opposta: pensavano che fosse una persona rigida, intransigente e sicura di sé.
Fu certamente una “soldatessa” (usa lei questo termine poco rispettoso dell’uguaglianza di genere) obbediente, che si tenne, durante i giorni del sequestro, in una posizione piuttosto defilata, non partecipando mai alle discussioni politiche (soltanto dopo l’uccisione di Moro, la Braghetti entrò nella direzione strategica della colonna romana delle Br).
Il suo compito, durante il sequestro, fu principalmente quello di uscire per gli approvvigionamenti necessari (spesa di generi alimentari e acquisti vari) e di sostenere la parte della brava fidanzata-lavoratrice (di Germano Maccari) e inquilina-modello, partecipando persino a una riunione condominiale e intrattenendo relazioni cordiali con altri abitanti della palazzina di via Montalcini.

Mario Moretti, sempre nel racconto della Braghetti, è descritto come un uomo meno “freddo” e “spietato” di quanto emerge in altri scritti che ho letto. Sicuramente una persona decisa, ma capace anche di gesti generosi e persino di correre gravi rischi, contravvenendo alle rigide regole della clandestinità, pur di aiutare un compagno o una compagna.
Dotato di uno spiccato senso pratico, abilissimo nei lavori manuali, di quegli uomini che non possono mai stare fermi e che sanno aggiustare qualsiasi cosa si rompa in casa. Nelle discussioni, molto assertivo ma disposto ad ascoltare tutti. Non alzava mai la voce, ma quando si trattava di decidere arrivava anche a chiudere la questione con un: “Non si può”, oppure: “Si fa così e basta”.
Com’è noto fu lui e soltanto lui a interrogare Moro durante la prigionia.

Prospero Gallinari emerge dal racconto come una persona generosa e leale, disposta a dare la vita per l’organizzazione; convinta, anzi, che la lotta armata venisse prima di qualsiasi altra cosa, anche prima degli affetti familiari e dell’amore. La Braghetti, vivendo a stretto contatto con lui durante i cinquantacinque giorni, se ne innamorò e divenne la sua compagna. Lo sposò tre anni dopo in carcere (ma qualche anno dopo divorziò).
Sempre allineato con Moretti, d’accordo con lui su tutto. I due passarono pomeriggi e serate intere, fino a notte fonda, a discutere del caso, mano a mano che gli interrogatori del prigioniero proseguivano.
Gallinari non lasciò mai l’appartamento di via Montalcini durante il sequestro, ma vi rimase nascosto (e sempre con le armi a portata di mano). Gli altri abitanti del palazzo non sapevano della sua presenza.
Anche lui fu a contatto col prigioniero, ma solo per portargli da mangiare e per parlare di questioni pratiche.

Germano Maccari è descritto come il caratterialmente più fragile e il meno “convinto” dei quattro; anzi, l’unico non convinto. Soffrì molto i giorni della prigionia, desiderava uscire per incontrarsi con la sua fidanzata, che non era delle Brigate rosse e non sapeva nulla. Per questo litigò aspramente con Gallinari (che peraltro disapprovava le relazioni sentimentali con soggetti esterni; secondo lui i brigatisti dovevano fidanzarsi soltanto con altre compagne dell’organizzazione).
Nonostante il divieto di Moretti e Gallinari, Maccari uscì più volte dall’appartamento e si incontrò con la fidanzata. A un certo punto lui e Prospero non si rivolsero più la parola.
Germano Maccari durante i cinquantacinque giorni fu il “fidanzato ufficiale” di Anna Laura Braghetti, presentato come tale ai vicini di casa. Dopo l’uccisione di Moro, lasciò le Brigate rosse.
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Aldo Moro è descritto molto positivamente. Come una persona spaventata all’inizio, ma poi perfettamente padrona della situazione e che non perde mai la calma. Intelligente, acuto; però parla un linguaggio (quello del Palazzo e del suo Partito, ovviamente) che loro, i brigatisti, fanno molta difficoltà a comprendere. Ecco spiegata così (in maniera un po’ troppo semplicistica, secondo me) una delle più vistose “incongruenze” di questa oscura vicenda: perché i brigatisti non “usarono” molte delle rivelazioni fatte da Moro durante gli interrogatori e da lui poi scritte nel famoso Memoriale (di cui una parte è scomparsa)? Risposta: perché i brigatisti, che non conoscevano il linguaggio di Moro ed erano all’oscuro delle trame e degli intrallazzi del potere democristiano a cui il prigioniero alludeva o faceva riferimento, non furono in grado di capire quelle rivelazioni e di valutarne l’importanza…

Si sforza, la Braghetti, di far apparire Moro molto diverso dai suoi compagni di partito, specialmente dal “teppista di Stato” Taviani, ma anche dal “capo degli sbirri” Cossiga, da Andreotti, da Zaccagnini (che Moro disprezza particolarmente, anche dal punto di vista professionale oltre che umano, parlandone spesso con Moretti).
Messo di fronte alla propria fine, ecco che Moro getta la maschera di notabile democristiano e non è più un uomo di potere, ma un uomo che lotta strenuamente per la propria sopravvivenza ed è quindi più sincero, più onesto, più leale. Il Moro prigioniero delle Brigate rosse è finalmente un uomo e non un “mostro” corrotto dal potere, come i suoi compagni di partito che sono ancora liberi…

Leggendo il racconto della Braghetti si ha la netta impressione che a un certo punto, a partire quanto meno dal 15 aprile (giorno della condanna a morte), si sia instaurata nell’appartamento-prigione di via Montalcini una sorta di alleanza, neanche tanto tacita, fra Moro e i suoi carcerieri, che in fondo perseguivano lo stesso obiettivo (sebbene per ragioni radicalmente diverse). Circostanza, questa, a mio avviso fra le più credibili del libro, anche se è sempre stata negata dai brigatisti più irriducibili, in primis da Mario Moretti.
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Infine, l’esecuzione. Vissuta male, sofferta da tutti, ma soprattutto dalla Braghetti e da Maccari, che fino all’ultimo chiedono a Moretti almeno di ritardare l’uccisione dell’ostaggio. Ma inutilmente. Non solo la direzione strategica, ma anche tutti gli altri compagni (con pochissimi voti contrari, tra i quali, com’e noto, quelli dei due “postini”, Morucci e Faranda) si esprimono per la soppressione di Moro.

Perché, dunque, lo uccidono? Fondamentalmente per tre ragioni, secondo quanto riferito in questo libro da Anna Laura Braghetti: 1) perché liberarlo così, senza condizioni, avrebbe significato far vincere lo Stato, ossia far trionfare la linea della fermezza: la lotta armata, allora, non sarebbe stata più credibile; 2) perché già i cinque uomini della scorta erano stati uccisi ed essi, essendo dei semplici militari caduti nell’adempimento del loro dovere, erano assai meno responsabili di Moro, compromesso da oltre trent’anni col potere democristiano: non si poteva, dunque, graziare Moro (il più colpevole) dopo aver ucciso gli agenti della sua scorta (i meno colpevoli); 3) perché bisognava far presto, il sequestro durava già da cinquantacinque giorni e la prigione rischiava di essere scoperta da un momento all’altro…

Personalmente, non condivido nessuno di questi tre motivi, anche volendo mettermi nell’ottica dei “guerriglieri”. Il secondo mi sembra il più agghiacciante e stupido di tutti, non merita neanche di essere discusso. Il terzo lo trovo addirittura infondato sul piano logico: infatti il sequestro si poteva chiudere lo stesso il 9 maggio con la liberazione del prigioniero, anziché con la sua soppressione. Non è che siccome bisognava “far presto”, allora l’unica possibilità era quella di ucciderlo; questo motivo, secondo me, non sta proprio in piedi sul piano della logica…

L’unico motivo discutibile, calandosi nella distorta ottica dei terroristi, rimane il primo. Ma secondo me non è vero. Liberare Moro non significava darla vinta allo Stato, proprio perché un Moro vivo sarebbe stato molto più destabilizzante per il potere democristiano di un Moro cadavere.
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Lettura interessante (ripeto, però, non per chi cerca la soluzione dei “misteri” del caso Moro), a tratti un po’ fastidiosa perché nel tentativo di “umanizzare” non solo i brigatisti ma anche tutta la vicenda, vengono inseriti degli episodi “leggeri” o addirittura ameni, che dovrebbero indurre al riso o al sorriso, o quantomeno a dire: “Massì, in fondo non erano poi così disumani…”.

La storia del sequestro è inoltre inframmezzata da brevi capitoli in cui la Braghetti racconta la propria vicenda personale, dalla sua iniziale militanza nei movimenti studenteschi al passaggio alla lotta armata, prima e dopo il sequestro Moro, passando per il terribile omicidio di Vittorio Bachelet (da lei freddamente ucciso il 12 febbraio 1980), fino all’arresto e alla durissima esperienza del supercarcere di Voghera.

Di questa parte del libro ho particolarmente apprezzato la sincerità dell’autrice, che dimostra di non essere troppo indulgente verso se stessa e non chiede sconti a nessuno per le proprie responsabilità.
"Lo stolto continua a parlare mentre gli strumenti dicono molto più di questo, stai tranquillo e ascolta quello che non puoi esprimere" (andromeda57)
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Anni 80? No, grazie
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