Siamo nel 218 avanti Cristo. Annibale ha valicato le Alpi con il suo enorme esercito di guerrieri, cavalli ed elefanti, e sta invadendo la terra che a quei tempi era detta dai Romani “Gallia cisalpina” (oggi alcuni la chiamano “Padania”).
Un gruppo di Galli stanziato sul Ticino, allo sbocco del Lago Maggiore (la tribù detta delle “Teste Rosse”), normalmente dedito alle scorribande e alla pirateria sul fiume, si trova a dover fare una scelta: combattere per respingere l’invasore, facendo così il gioco dell’opulenta Roma, oppure, al contrario, schierarsi con le truppe di Annibale e marciare insieme ad esse alla volta dell’Urbe.
La decisione non è semplice, ma alla fine, non senza qualche defezione e qualche “purga” interna, prevale nei Galli lo spirito rancoroso nei confronti di Roma, che li ha sempre lasciati a sé stessi, disinteressandosi del loro destino e che ora vorrebbe sfruttarli soltanto per il proprio interesse. Non solo: vi è anche la consapevolezza, da parte dei Galli “nordici”, di non c’entrare nulla con Roma, di essere loro stessi “stranieri” in terra italica. Tanto vale, allora, schierarsi con gli invasori…
I Galli ticinesi, capitanati da un certo Magnàn e dal suo braccio destro Bisculàt, si uniscono così alle armate dei Cartaginesi (non vedono mai, naturalmente, il loro nobile capo) e al grido di “Tarbagatai!” (che significa “Guerra!” nella loro lingua), percorrono tutta la penisola da Nord a Sud, partecipando a fianco degli invasori alle più importanti battaglie della Seconda guerra punica.
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Il libro è suddiviso in quattro parti, che corrispondono a ciascuna delle battaglie: Tisìn, Trebia, Trasamenu e Cana.Le battaglie sono descritte dall’interno, dal punto di vista dei Galli e in particolare da quello del loro capo, Magnàn. Manca una visione d’assieme e il narratore si sofferma sovente su un particolare della lotta, su un singolo scontro con uno o più soldati romani.
Alla fine di ogni battaglia, abbuffate e sbronze colossali. Dialoghi di difficile comprensione tra Magnàn e Bisculàt, litigi e accoppiamenti focosi tra il capo e la sua donna, detta la “strega”.
Tra una battaglia e l’altra, gli anni passano e alla fine subentra l’amara convinzione che i “barbari” potranno vincere tutte le battaglie, ma non vinceranno mai la guerra contro Roma. E anche la consapevolezza che al termine di questa lunghissima guerra loro scompariranno e nascerà finalmente l’Italia.
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Libro veramente ostico, per il complesso impasto linguistico di italiano e dialetto, ma anche per la struttura, che è modellata più sulla forma di un poema piuttosto che su quella di un romanzo.Imperdonabili, poi, a mio parere, sono i troppo frequenti riferimenti alla modernità, persino alla religione cristiana, che era ancora lontana da venire. In una storia ambientata duecento anni prima di Cristo, non puoi leggere invocazioni (e imprecazioni) a Gesù, ai Santi, alla Madonna…
Né puoi imbatterti in termini come “anarchia” o “anarchismo”, o in neologismi come “pitrentottismo” (riferito alla P-38, arma comunemente usata dai terroristi rossi degli anni Settanta).
L’idea, evidentemente, è stata quella di scrivere un’opera “quasi buffa” o “semiseria”, mischiando antichità e modernità. Personalmente, avrei preferito un’opera storica legata esclusivamente ai suoi tempi. E che fosse anche più comprensibile a chi non mastica il dialetto lombardo.
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Nel 1979 il Premio Strega fu assegnato al romanzo La chiave a stella di Primo Levi.viewtopic.php?f=43&t=304