Una raccolta di ricordi scritti “a ruota libera” da Ghizzardi nella sua scrittura particolare, sgrammaticata, piena di errori, con tante “acca” che non c’entrano con l’ortografia italiana; eppure dotata di una propria coerenza e di una struttura logica, al punto da costituire una vera e propria lingua alla quale il lettore si abitua pagina dopo pagina.
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Non è stata una vita facile quella di Pietro Ghizzardi, nato nel 1906 a Corte Pavesina, un paesino in provincia di Mantova. Contadino figlio di contadini, affetto da una grave pleurite negli anni infantili, riuscì miracolosamente a sopravvivere, quando già i genitori e i parenti pensavano che non ce l’avrebbe fatta.Seguì la sua famiglia di braccianti agricoli nei vari spostamenti dovuti al lavoro, nella Bassa Padana, tra le province di Mantova e Reggio Emilia. Abbandonò prestissimo la scuola, mentre stava ripetendo la prima elementare.
Considerato un po’ “lo scemo del villaggio”, spesso oggetto di scherno e di scherzi da parte degli altri ragazzi (come quando, ad esempio, gli rubarono i vestiti mentre faceva il bagno nel Po), Ghizzardi sviluppò sempre di più una vita solitaria e interiore, e verso il 1940 cominciò a dedicarsi in maniera sistematica alla pittura.
Completamente autodidatta, iniziò a dipingere sulle pareti dei casolari o su dei cartoni abbandonati, usando colori naturali che si fabbricava da solo utilizzando erbe, bacche, radici, frutti di bosco e altri prodotti della terra.
Osteggiato dai familiari, additato e deriso dalla comunità, continuò con ostinazione a dipingere, finché qualcuno notò i suoi quadri e il loro valore. Negli anni Sessanta Ghizzardi cominciò ad esporre le sue opere e in poco tempo divenne un pittore famoso. Oggi la sua casa di Boretto, in provincia di Reggio Emilia, dove il pittore morì nel 1986, è diventata un museo nel quale sono custodite ed esposte le sue opere più importanti.
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Le memorie del pittore, pur essendo abbastanza disorganiche, seguono un ordine cronologico, partendo da quando egli aveva due anni, nel 1908, e giungendo fino alla fine degli anni Cinquanta. Sono fatte di aneddoti, anche divertenti, di riflessioni e meditazioni… Il duro lavoro nei campi, ma anche la bellezza della natura e la genuinità della vita contadina. Le feste paesane, le “scazzottate” fra i giovanotti, gli scherzi, i divertimenti, le ragazze…La miseria, la fame, la guerra…
Ciò che colpisce alla lettura, ad ogni modo, è l’ingenuità, la purezza di pensiero, e il fatto che, nonostante tutte le sofferenze e i soprusi, Ghizzardi non sia affatto astioso né animato da alcun sentimento di vendetta o di rivalsa. “Mi richordo anchora” è il ritratto di uno spirito nobile, generoso e puro.
Ecco, ad esempio, come viene raccontata nel libro la scoperta dell’autoerotismo:
“…poi mi richordo anchora allora avevo 16 anni
un giorno ero andato in champagna a rastellare lerba per le nostre bovine
mi era venuto voglia di provare un deziderio di natura che pensavo spesse volte pensavo sempre a una donna ben chorporata chon un bel seno che per mé mi era molto meraviglio tutto inun cholpo mi ero sdraiato sullerba a pancia in sù e ò inchominciato a provare il mio primo deziderio mi ò sentiti tutto inun cholpo mi era una sodisfassione nuova per mé mi ussiva da quel bìscharo un po’ di aquina rossa…”.
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Alcune opere di Pietro Ghizzardi