Ecco il fatto: la notte del 2 maggio 1974, a Trieste, brucia il magazzino dove si trova una parte della vastissima collezione di reperti bellici raccolti da Diego de Henriquez. Quando i vigili del fuoco intervengono per spegnere l’incendio, facendosi largo in mezzo al fumo e alle fiamme, trovano, oltre ai numerosi cimeli in parte distrutti, anche il cadavere mezzo carbonizzato del suo unico abitante, adagiato dentro la bara dove era solito dormire…
L’autorità giudiziaria archivia presto il caso come “incidente”, senza nemmeno disporre l’autopsia del cadavere: Diego de Henriquez, che da tempo, trovandosi in stato di semi-indigenza (nonché dedito all'alcool e affetto da disturbi mentali), abitava nel magazzino andato a fuoco insieme a una parte della sua collezione, è morto soffocato nel sonno dal fumo provocato da un incendio propagatosi per colpa di un piccolo forno elettrico entrato in corto circuito.
Dopo più di un anno, su pressione di una parte della stampa (che invece ipotizza l’incendio doloso e l’omicidio di de Henriquez), viene riaperta l’inchiesta con la riesumazione della salma. Ma lo stato di decomposizione avanzata in cui il corpo ormai si trova non consente di effettuare alcun rilievo, per cui il caso viene nuovamente archiviato. Rimane dunque, a tutt’oggi, il mistero sulla tragica fine del collezionista: morte accidentale o delitto?
Uomo dai molteplici interessi e di vasta erudizione (benché studioso autodidatta), poliglotta (parlava fluentemente, oltre all’italiano, lo spagnolo, il tedesco, l’inglese, il francese, lo sloveno e il serbo-croato), fin da ragazzino appassionato di reperti bellici della Prima guerra mondiale che trovava durante le sue escursioni sul Carso triestino, de Henriquez decise a un certo punto di dedicare il resto della propria vita a creare una collezione di materiale bellico, con il solo e preciso scopo di mostrare al mondo gli strumenti e le macchine di morte che l’uomo crea incessantemente (e stupidamente) per distruggere se stesso.
Mettere in mostra l’orrore della guerra per valorizzare, perseguire e preservare la pace, questa fu l’idea che letteralmente lo ossessionò fin dal 1941, quando era un caporale dell’esercito italiano richiamato sotto le armi per il secondo conflitto mondiale.
E per realizzare tale progetto, grazie anche a una buona dose di scaltrezza e spregiudicatezza, de Henriquez chiese ed ottenne la collaborazione (in certi casi pagando anche ingenti cifre che finirono per causare la sua rovina finanziaria) di tutte le forze armate con le quali venne in contatto: prima gli italiani del regio esercito fascista, poi i tedeschi (che dopo l’8 settembre del 1943 occuparono Trieste e il “Litorale adriatico”), poi, ancora, i partigiani jugoslavi di Tito (che entrarono a Trieste il 1° maggio 1945) e gli Alleati (che vi giunsero il giorno seguente e vi rimasero fino all’ottobre del 1954), e infine le forze armate dell’Italia repubblicana.
Nell’arco di più di un ventennio, de Henriquez raccolse circa 15.000 reperti bellici, soprattutto della Prima e della Seconda guerra mondiale: carri armati, mezzi blindati, sommergibili, cannoni, mezzi di trasporto truppe, obici, mortai e mitragliatrici... Ma anche pezzi di artiglieria leggera, armi bianche, elmetti, divise, equipaggiamenti di guerra, nonché numerose fotografie, cartoline, lettere, documenti militari…
L’enorme collezione, da lui minuziosamente catalogata nel corso degli anni, anche dopo l’interessamento del governo italiano alla fine degli anni Sessanta, stentò tuttavia a trovare una collocazione definitiva e fu ospitata per decenni in sistemazioni provvisorie e spezzata in diverse parti.
Soltanto nel 2014 è stato inaugurato a Trieste il “Museo della Guerra per la Pace”, intitolato naturalmente all’ideatore e creatore della collezione. Là è oggi possibile vedere una parte (meno della metà, si dice) dei reperti bellici raccolti, mentre l’altra parte si trova ancora chiusa all’interno di alcuni magazzini non accessibili al pubblico.
L’ipotesi da sempre adombrata e che negli ultimi anni ha ripreso corpo è che il collezionista, nella sua febbrile attività di ricerca e acquisizione di ogni tipo di materiale che avesse a che fare con le forze armate, fosse entrato in possesso anche di documenti militari segreti di un certo rilievo; ma soprattutto che avesse minuziosamente trascritto sui propri diari (un’altra sua specie di “patologia” era infatti la grafomania) i graffiti e le scritte che i prigionieri (ebrei, slavi, zingari e prigionieri politici) della Risiera di San Sabba (unico campo di sterminio nazista che si trova in Italia, a Trieste) avevano inciso sui muri delle angustissime celle prima di essere mandati a morire nel forno crematorio della Risiera o deportati in altri “campi della morte” (principalmente ad Auschwitz).
Tra quei graffiti e quelle scritte, che de Henriquez copiò sui propri diari durante i giorni della liberazione di Trieste (maggio 1945), pare ci fossero anche tanti nomi e cognomi. Non solo di familiari e di persone amate dai prigionieri, ma anche (e sembra parecchi) nomi e cognomi di collaboratori italiani dei nazisti, spie e delatori. Persone, sembra, appartenenti anche a famiglie altolocate, della “Trieste-bene” di quei tempi, che poi, dopo la guerra, sono riuscite non solo a farla franca perché la loro opera delatoria e di collaborazione con i nazisti rimase sconosciuta, ma anche a “riciclarsi” e a occupare posizioni di rilievo nella vita pubblica dell’Italia repubblicana e democratica.
Nomi e cognomi che una mano ignota e (più o meno) “autorizzata” dalle forze di liberazione dell’esercito alleato provvide a cancellare insieme a tutte le altre scritte e ai graffiti, piuttosto frettolosamente, con un colpo di calce somministrato alle mura interne delle orribili celle, mentre il “grafomane” de Henriquez stava ancora completando il suo lavoro di trascrizione.
Ma quello scottante ancorché incompleto elenco, sempre secondo i sostenitori dell’ipotesi delittuosa della morte di de Henriquez, rimase a lungo, per quasi trent’anni, trasfuso nei diari del collezionista, i quali – strano caso – dopo la sua morte non furono mai più trovati. Morte che avvenne – altra stranissima coincidenza – proprio alla vigilia dell’apertura del processo ai criminali ex nazisti che gestirono la Risiera di San Sabba e mandarono a morire migliaia di persone: anche “grazie” all’aiuto di quei collaborazionisti e delatori rimasti ignoti e che hanno continuato ad essere considerati cittadini per bene…
Quei “cittadini per bene” che – forse – hanno eliminato o ordinato di eliminare Diego de Henriquez e fatto sparire i diari che il collezionista, secondo la testimonianza di amici e conoscenti, teneva sempre con sé.
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