Nel 1973, il giornalista e storico tedesco Joachim Fest pubblicò un’accuratissima e approfondita biografia del Fuhrer, che rimarrà nella Storia come una delle più famose e complete.
Le vicende della vita di Adolf Hitler sono arcinote a tutti e non è utile che io le ricordi qui (sarebbe anche troppo dispendioso per me). La voluminosa biografia di Fest (oltre novecento pagine nell’edizione BUR del 1991, in mio possesso) ripercorre l’intera esistenza di Hitler dalla nascita nel villaggio austriaco di Braunau am Inn, il 20 aprile del 1889, fino alla sua morte nel bunker della cancelleria del Reich, a Berlino, il 30 aprile del 1945.
Mi pare, invece, più interessante soffermarmi sulla tesi di Fest intorno al personaggio Hitler, che permea questo suo grande lavoro.
Il Fuhrer non fu, come in altre parti si è scritto o lasciato intendere, un personaggio in contraddizione con la sua epoca: non siamo di fronte a un uomo sganciato dal contesto storico e arrivato da “un altro mondo” a condizionare gli avvenimenti “ab externo” come una specie di essere sovraumano o diabolico. Hitler fu, al contrario, in tutto e per tutto, figlio della Germania dei suoi tempi e la sua forza fu proprio quella di rendersi interprete del disagio, delle paure, delle angosce che erano diffuse nel popolo tedesco tra le due guerre.
Per capire bene la figura di Hitler, secondo Fest, occorre por mente non tanto ai suoi tratti “demoniaci”, ma piuttosto a quelli “normali”, che lo delineano come un individuo simile a tantissimi altri della sua epoca: con una capacità, tuttavia, senza precedenti, di incarnare i sentimenti della gente comune in un dato periodo della Storia e, conseguentemente, di incidere sulla Storia stessa in una maniera che non si era mai vista prima e che per molti aspetti rimane ancora inspiegabile.
Un uomo “normale”, insomma, non un demone e nemmeno un “pazzo”, secondo l’accezione comune di questo termine, che designa un individuo incapace di rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni. Tutt’altro: quella di Hitler fu, semmai, una “lucidissima follia”: frutto di una enorme capacità “visionaria”, di una sfrontatezza audacissima, spesso aiutata anche da un’incredibile combinazione di fortunate coincidenze: più volte Hitler, nella sua carriera, rischiò il tutto e per tutto, comportandosi come un giocatore di dadi, arrivando a un passo dal suo annientamento politico. Per poi rialzarsi in piedi e ripartire più forte di prima.
Un individuo “normale”, ma resta il fatto – prosegue Fest – che nessuno più di lui ha provocato tanto giubilo, tanto isterismo, tanta aspettativa di salvezza; nessuno altrettanto odio. Nessun altro, percorrendo per pochi anni un cammino solitario, ha impartito alla sua epoca così incredibili accelerazioni, nessuno ha, come lui, mutato volto al mondo; e nessuno s’è lasciato dietro una simile traccia di rovine. Soltanto una coalizione formata da quasi tutte le potenze mondiali è riuscita, con una guerra di quasi sei anni, a svellerlo, letteralmente, dalla faccia della Terra: ad ammazzarlo, per dirla con un ufficiale che partecipò al famoso attentato (fallito) del 20 luglio 1944, “come un cane rabbioso”.
Se sia stata veramente grandezza quella di Hitler, è una domanda alla quale in definitiva bisogna rispondere, secondo Fest, negativamente: ma non tanto per questioni morali, non perché (come io avevo sempre pensato) egli ha provocato soltanto del male all’umanità, quanto piuttosto per il motivo che la tradizione storica non può considerare tra i “grandi” persone volgari come Hitler, il quale fu un individuo più istintuale che intelligente, visceralmente intollerante, assetato di vendetta, interessato solo ed esclusivamente al potere, mancante di una qualsiasi forma di generosità. Un uomo di una ripugnante trivialità, con una mentalità contraddistinta da un materialismo piatto e nudo. Per essere tra i “grandi” della Storia, insomma, secondo un antico dogma dell’estetica richiamato da Fest, non basta avere qualità straordinarie, ma è necessario non essere sgradevoli. E Hitler, sgradevole, lo era assolutamente, in tutto e per tutto.
Che egli sia stato un “figlio dei suoi tempi” è una verità che si coglie bene (e tragicamente) soprattutto in relazione al genocidio degli ebrei: l’antisemitismo era ben radicato sia in Germania che in Austria fin da epoche assai precedenti a quelle di Hitler ed egli stesso apprese la dottrina antisemita proprio a Vienna, negli anni della sua giovinezza, quando era un lettore (uno dei tantissimi) del “Linzer Fliegende Blatter”, un foglio di tendenza pantedesca e aggressivamente antisemitico. Sulla Felberstrasse, a pochi passi dall’abitazione di Hitler, inoltre, vi era una tabaccheria con rivendita di giornali in cui si poteva acquistare per pochi soldi una rivista, molto famosa all’epoca, di “studi razziali”, che si chiamava “Ostara” (il nome della dea germanica della primavera) e sul cui frontespizio poteva leggersi: “Sei biondo? Allora sei un creatore e diffusore di cultura! Sei biondo? In tal caso, gravi pericoli ti minacciano! Leggi i libri della Biblioteca dei Biondi Virili”.
Ma vi è di più: pur non potendosi negare l’odio autentico di Hitler per gli ebrei (autentico, ma non originale), non vi è dubbio che egli abbia anche usato in maniera strumentale l’antisemitismo, come “collante” per indirizzare e manipolare le masse, trovando - purtroppo - un terreno assai fertile.
Mi ha aiutato a sgombrare la mente da alcuni luoghi comuni sulla fosca figura del Fuhrer, che mi portavo dietro dall’infanzia e dall’adolescenza: non era un “pazzo”, non era un “alieno” rispetto alla realtà in cui viveva ed era cresciuto, e più che “inventato” ha “interpretato” e “incarnato”. E, soprattutto, non ha mai nascosto nulla a nessuno di ciò che voleva fare: lo ha sempre detto, in quel suo modo delirante e unico al mondo, fin dai suoi primi comizi nelle birrerie di Monaco, quando ad ascoltarlo erano in quattro gatti. Allora, all’inizio degli anni Venti, i suoi discorsi parevano “visioni”, “castelli in aria”, però piacevano. E piacquero sempre di più, perché era di quei “castelli” e di quelle “visioni”, purtroppo, che la gente credeva di aver bisogno.