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Dietro le parole

Dietro le parole

Raccolta di ben settantadue articoli dello scrittore, saggista, romanziere e critico letterario, Claudio Magris, pubblicati in vari quotidiani (soprattutto nel “Corriere della Sera”) o in altri giornali e riviste non specializzate, edita da Garzanti nel 1978. Gli articoli, tutti vertenti su temi letterari, risalgono agli ultimi dieci anni che precedono la pubblicazione della raccolta.

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Si tratta di analisi circoscritte, brevi, ma incisive e approfondite, di libri e di autori di diverse epoche e provenienze, con una speciale attenzione per la Germania e la letteratura “mitteleuropea”, particolarmente care a Magris.

Ogni articolo è a sé stante, tuttavia una tematica ricorrente in queste pagine di critica letteraria, che si offre come suggestiva chiave di lettura dell’intera raccolta, è quella del confronto/contrasto tra letteratura “classica” e “moderna”, visto soprattutto come conflitto fra “totalità” e “disgregazione”.

Per spiegarmi meglio: gli autori che Magris considera “classici” sono quelli che rappresentano nelle loro opere un ideale di armoniosa unità fra il particolare e l’universale. Nei loro scritti, siano poemi o romanzi, si avverte un’idea di “totalità”, nel senso che le vicende umane, particolari e accidentali, non sono che frammenti di un “tutto” più vasto, eterno e immutabile. Viceversa, la letteratura moderna, e ancora di più “l’avanguardia”, celebra la dissoluzione di questa perfetta unità tra universale e particolare: il poeta o lo scrittore moderno non è più in grado di esprimere l’armonia fra se stesso e l’universo, e narra anzi la “crisi”, la scissione dell’ “io” dalla totalità universale.

Tenendo sempre presente questa suggestiva chiave di lettura, abbiamo, ad esempio, che la letteratura “classica” per eccellenza è l’Epica: essa, infatti, era stata definita da Schiller come il genere letterario nel quale ogni elemento o parte è “autosufficiente”: significa, in pratica, che nei grandi poemi epici dell’antichità, ogni singolo motivo esprime il rapporto fra universale e particolare, e cioè la loro identità nell’ambito di una medesima legge organica che lascia trasparire la totalità nel particolare.

Allo stesso modo, è un autore classico Goethe, che in uno dei suoi più famosi poemi (Il Divano occidentale-orientale) celebra la bellezza universale in quella particolare di Suleika, la quale, pur sapendo di essere soltanto un “momento”, un mero e transitorio “accidente” nel fluire incessante della vita, è perfettamente paga della propria forma, sentendosi in armonia con una più vasta totalità che la trascende.

Così, è un classico pure il grande Tolstoj, che soprattutto in Guerra e Pace rappresenta la vita come integra e intera in ogni particolare: nella famosa scena della mazurka ballata dai protagonisti durante una festa di carnevale, ad esempio, si sente respirare l’intera onda del vivere; tutto l’universo tolstojano è rappresentato nei particolari di quelle pagine, che riflettono l’universale del romanzo come i frammenti di uno stesso specchio.

Ed è un classico certamente anche Emilio Salgari, che nei suoi libri avventurosi, di dimensione “epica”, propone ai suoi giovani lettori di scoprire un vero e proprio “mondo” e offre ad essi un’esperienza della totalità, sia pure a un livello elementare.

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La letteratura moderna, per contro, nasce con la frantumazione della totalità espressa dai classici: gli autori moderni rinunciano a cogliere l’universale nel particolare; per essi i frammenti del reale non sono i pezzi di un medesimo specchio, ma piuttosto le parti di un congegno meccanico che, una volta smontate, sono inutili aggeggi: il particolare diventa un isolamento insensato e il narratore non è più capace di rappresentare e sintetizzare l’universale che lo trascende. Egli pone in dubbio la sua stessa capacità di rappresentare il reale; e la coralità, che nei classici esprimeva l’esperienza di una dimensione sovraindividuale, trapassa nella solitudine del romanziere.

I romantici tedeschi (Schlegel, Schiller, Novalis, lo stesso Goethe), perfettamente consapevoli dell’avvenuta scissione fra l’universale e il particolare, ossia, detto in termini filosofici, fra ideale e reale, sono stati tra gli ultimi che hanno cercato drammaticamente di ricomporre tale frattura, rappresentando, specialmente nelle loro opere poetiche, l’unità e la totalità del cosmo o, più spesso, anelando ad essa: infatti, in molte loro poesie si avverte come ormai irrimediabile la spaccatura fra l’intero e il molteplice, sicché il poeta si abbandona ad una struggente tensione, sempre inappagata, verso un oggetto sfuggente, esprimendo una specie di nostalgia “cosmica”, ossia l’aspirazione ad un assoluto irraggiungibile (così anche il Leopardi dell’Infinito).

Dopodiché, abbiamo gli autori “dell’io ormai irrimediabilmente scisso”, che dunque non possono che raccontare la crisi, la dissoluzione dello spirito e della forma. Mentre la Suleika di Goethe guardandosi allo specchio celebrava la bellezza universale ed era indifferente alle metamorfosi che avrebbero finito per corrompere e degradare quella sua bellezza soltanto transitoria, il poeta moderno e d’avanguardia è attento proprio a cogliere e a raccontare quelle metamorfosi degradanti, che annientano il particolare umano, dopo averlo isolato dall’universale e privato di ogni armonia.

Ecco, ad esempio, i due grandi romanzi di Hoffmann (Il gatto Murr e Gli elisir del diavolo), nei quali, scrive Magris, “Il tempo si frantuma in una serie discontinua di brandelli fra i quali il narratore si muove brancolando, la vita si disgrega in una tragica assurdità, personaggi ed eventi affondano in un’ombra che li trasforma e li cancella di continuo, mentre le tenebre della follia insidiano ogni speranza di felicità e di significato”.

Ecco, certamente da annoverarsi tra i grandi scrittori della “dissoluzione”, Franz Kafka: “Nessuno ha descritto come lui la debolezza e la fragilità dell’uomo moderno, sradicato dalla natura e scagliato come un sasso nella Storia, di fronte alla lusinga, alla pienezza del desiderio, che accosta l’individuo alla totalità vitale”. I personaggi di Kafka, scrive ancora Claudio Magris, “dicono di no all’esistenza (…) riluttano tenacemente al desiderio e cercano di sfuggire alla sua forza tortuosa e struggente perché temono, o meglio perché sanno, di non essere all’altezza del grande e trascinante respiro del desiderio e preferiscono bloccarlo, reprimerlo, distanziarlo, eluderlo piuttosto che venirne travolti”.

Ecco Robert Walser, uno scrittore che esprime perfettamente la disgregazione dell’io moderno, la dissoluzione della totalità incarnata dal classicismo: mentre per gli autori classici, l’individuo era il centro ordinatore della vita, i personaggi dei romanzi di Walser sono perfettamente consapevoli che la loro sorte è quella di disperdersi e disseminarsi nel fluire delle cose. La sua esistenza “è come una giacca provvisoria, non un abito fatto su misura”, disse lo stesso Robert Walser di un suo personaggio; mentre Jacob von Gunten, un altro personaggio walseriano, protagonista dell’omonimo romanzo, è un giovane studente di collegio che si prepara ad essere “un magnifico zero, rotondo come una palla” e a scomparire.

Ecco ancora Jack London, che nel suo romanzo Il lupo dei mari coglie uno degli aspetti maggiormente negativi e degenerativi dell’io scisso dall’universale: quello della sopraffazione individuale, dell’uomo che cerca di dominare e sottomettere i suoi simili. Lupo Larsen, il protagonista del romanzo (un individuo malvagio che rappresenta una specie di incarnazione del superuomo di Nietzsche) è l’uomo che, una volta scoperto che l’io è fluttuante, inconsistente e malleabile, sceglie la strada della lotta per la sopraffazione dei simili, “l’iperbole dell’affermazione del proprio io illusorio e caduco”.

Ed ecco, infine, per concludere con un altro famoso esempio di “letteratura della dissoluzione” (ce ne sarebbero molti altri), il Finnengans Wake di James Joyce, dove la forma, che nei classici è armonia e unità fra particolare e universale, esprime, al contrario e in modo esasperato, la dissociazione fra totalità e accidentalità, con un linguaggio che rappresenta il fluire della vita stessa e le vertiginose metamorfosi che finiscono per corromperla: quelle stesse metamorfosi di fronte alle quali la Suleika di Goethe opponeva l’indifferente immortalità dei classici, che aveva il suo fondamento nell’armoniosa unità fra il particolare e l’universale.

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L’antitesi fra “classici” e “moderni” è soltanto una delle tante tematiche affrontate dal futuro Autore di Danubio nei preziosi articoli contenuti nella raccolta Dietro le parole e risalenti agli anni Settanta; ma mi è sembrata quella più suggestiva e affascinante.

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