Resta connesso

Libri

I gerghi della malavita dal ‘500 a oggi

<div>I gerghi della malavita dal '500 a oggi</div>

Pubblicazione del 1972, a cura di Ernesto Ferrero, scrittore, linguista e critico letterario. Si tratta di un ricco dizionario del gergo malavitoso, che raccoglie tantissime voci, a partire dal Cinquecento, avendo cura di precisare se si tratti di parole solo dialettali o diffuse esclusivamente in certe Regioni e se siano termini ormai caduti in disuso oppure ancora in uso.

L’affascinante vocabolario è preceduto da un breve saggio introduttivo che spiega il significato, le origini e la storia del gergo, nonché il modo in cui si forma il linguaggio gergale, con specifico riguardo all’ambiente della malavita.

Ecco in sintesi i contenuti fondamentali.

Che cos’è il gergo

Il termine “gergo” è di origine provenzale: in italiano antico si diceva “gergone”, in francese “jargon”, in spagnolo “girgonz” o anche “gerigonza”, in portoghese “girigonza”.

Il gergo è una lingua speciale parlata da specifici gruppi sociali, che non intendono farsi comprendere da altri. Storicamente, non esiste soltanto il gergo dei delinquenti, ma anche quello parlato dagli adepti di sette religiose o politiche, oppure quello degli appartenenti a determinate corporazioni: abbiamo il gergo degli operai, degli artigiani, dei tecnici e dei girovaghi. Nonché il gergo degli ebrei e quello degli zingari.

Tuttavia, poiché l’intento primario del linguaggio gergale è quello di sottrarsi al controllo altrui, non c’è dubbio che il gergo “per eccellenza”, e anche quello linguisticamente più ricco e che si è maggiormente evoluto nella Storia, sia proprio quello furfantesco.

E’ necessario, quando ci si accosta al gergo, spazzare via un equivoco piuttosto diffuso soprattutto nei confronti di quello criminale: il gergo non c’entra con le “brutte parole”. Se si escludono alcune pochissime voci postribolari, il gergo dimostra scarsa inclinazione per la volgarità e anche quando si sbizzarrisce nell’epiteto e nell’ingiuria, non scade mai nell’oscenità gratuita.

Breve storia del gergo malavitoso

Il gergo della malavita, in Italia, fa le sue prime apparizioni pubbliche come “divertimento colto” e “letterario” delle classi egemoni, che lo strapparono ai veri gerganti e lo trasportarono nei salotti per trasformarlo in una specie di gioco e chiamandolo inizialmente “furbesco”.

Le tracce più antiche di “furbesco” si trovano in una lettera scritta da Luigi Pulci a Lorenzo il Magnifico nel 1472 e, poco più tardi, nel Morgante dello stesso Pulci.

Nel Cinquecento, il “furbesco” divenne una vera e propria moda delle classi colte, tanto che nel 1545 troviamo il primo “repertorio gergale”, compilato dal letterato padovano Antonio Brocardo e intitolato: “Nuovo Modo de intendere la Lingua Zerga”. Il libretto riscosse notevole successo, al punto che venne ristampato per ben trenta volte, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi anni del Seicento.

Sempre nel Cinquecento, il gergo irrompe nella letteratura: prima con la commedia, scritta da un anonimo nel 1514, intitolata “Bulesca” e poi, solo qualche anno più tardi, con la commedia “La Piovana” del Ruzzante. In questo stesso secolo, scrive in “furbesco” il verseggiatore modenese Giovanni Francesco Ferrari.

Nel Seicento, un altro verseggiatore fa uso abbondante del gergo: il bolognese Zan Muzzina, alias Bartolomeo Bocchini. Nel Settecento, il componimento in lingua gergale più importante è senza dubbio quello di Carlo Antonio Tanzi, intitolato: “Dialegh in Lengua Furbesca e Milanesa tra Sganeffa e Gabot.”

Nell’Ottocento, due grandi poeti, il Porta e il Belli, rispettivamente a Milano e a Roma, fanno abbondante uso di elementi gergali.

Verso la fine del XIX secolo, tuttavia, il gergo entra in una fase di crisi presso la “società civile”, dovuta all’influenza del Lombroso. Cesare Lombroso, considerato il fondatore dell’Antropologia criminale, riteneva il linguaggio dei criminali una manifestazione della loro “devianza psichica” e conseguentemente non aveva alcuna considerazione di tipo “letterario” per quella lingua.

Già nel 1846, a Milano, esce lo Studio sulle Lingue furbesche di Bernardino Biondelli, che è stato il pioniere di un tipo di ricerca e di impostazione che avrà i suoi epigoni proprio nel Lombroso e nella sua scuola. E già il Biondelli, appunto, nel suo trattato lamentava lo “strano capriccio” di introdurre nella nostra letteratura “questo barbaro gergo”.

Alla fine dell’Ottocento fiorì la criminologia, che finì con l’identificare il gergo col patologico, sottolineando nei vari scritti la “rozzezza” e la “primitività” del linguaggio dei furfanti. Non solo in Italia, ma anche in tutta Europa, si diffonde l’opinione profondamente negativa del linguaggio dei criminali e anche un grande scrittore come Victor Hugo, che dedica un intero capitolo de I miserabili al gergo, pur essendone in qualche misura affascinato, ne parla in termini sostanzialmente negativi, arrivando a definire il gergo un’ “escrescenza malata”.

In risposta al disprezzo sociale sempre più forte nei confronti della malavita, il gergo criminale, specialmente quello carcerario, si arricchisce proprio a partire dalla fine dell’Ottocento: non c’è più soltanto l’esigenza di nascondere determinate parole, ma si diffonde anche uno spirito di “appartenenza” alla società criminale in contrapposizione a quella “civile” e si tende a creare un linguaggio diverso da quello comune, che comprenda tutte le parole, anche quelle che non sarebbe strettamente necessario nascondere. Il mondo criminale (e soprattutto quello carcerario) diventa un “mondo a parte”, con i propri usi e la propria lingua, sempre più completa e ricca.

Il forte pregiudizio nei confronti della lingua gergale influenzò anche tutta la prima metà del Novecento. E’ solo nella seconda parte che il gergo della malavita torna ad essere considerato dalla letteratura, dal cinema e dalla canzone.

I due romanzi “romani” di Pier Paolo Pasolini (Ragazzi di vita e Una vita violenta) fanno abbondante uso del gergo. Tracce di gergo si trovano anche nei romanzi di Leonardo Sciascia, di Giovanni Testori e di Carlo Emilio Gadda; per quanto riguarda il cinema, occorre guardare soprattutto alle pellicole napoletane di Vittorio De Sica, a Mario Monicelli (I soliti ignoti), a Francesco Rosi (Salvatore Giuliano e I magliari) e a Vittorio De Seta (Banditi a Orgosolo).

Quanto alla canzone, un certo tipo “gergale” è stato portato alla ribalta da Dario Fo, da Enzo Jannacci, da Gipo Farassino e, soprattutto, da Ornella Vanoni, considerata la “cantante della mala” per eccellenza.

L’invenzione gergale

Esistono diversi livelli di invenzione linguistica gergale. Il primo e più immediato e primitivo è quello che consiste nel cogliere le caratteristiche salienti di un oggetto o di una persona al fine di descriverli. Questo metodo è soprattutto quello del gergo più antico, che poi è stato via via abbandonato per modi più elaborati e complessi.

Qualche esempio di gergo primitivo si ritrova nel “furbesco” antico: bramoso, ad esempio, è l’amante, spinosa, la barba, bruna, la notte, calchi, i piedi, fangose, le scarpe, lustro, il giorno, dannosa, la lingua (qui c’è già una traccia di invenzione metaforica). Non mancano esempi di invenzione a metà fra il descrittivo e il metaforico anche in epoca contemporanea: la bavosa, ad esempio, è la Coca-cola (perché le bollicine formano uno strato più chiaro nel bicchiere, che ricorda una bava).

I successivi gradini di invenzione gergale sono quelli che fanno abbondante uso della metafora, della similitudine, dell’onomatopea, dell’eufemismo e poi, via via, di figure retoriche sempre più complesse, come la metonimia o la sineddoche.

A questi livelli superiori a quello meramente descrittivo, compaiono spesso accostamenti agli animali, alle piante, agli oggetti, ai colori e ai nomi propri di persona più diffusi.

Qualche esempio tratto dalla fauna: canarino (il delatore), corvo (il prete), tarli (i complici), lucertole (i sigari), lumaca (l’orologio), marmotta (la cassaforte), pecora (la prostituta), tacchino (il vigile urbano), pinguino (il carabiniere), scorpione (il giudice).

Esempi di “flora gergale”: asparago (il secondino), cavolfiori (i carabinieri), ciclamini (i poliziotti), cipresso (il prete), ghiande (i soldi).

Oggetti: bombardino (il protettore della prostituta), scialle (il portafogli), tombola (gli anni di galera), pianola (la spia), violino (il mitra).

Cibi: polenta (l’oro), stracchino (l’argento), stare o essere sottoaceto (stare o essere sotto processo), krapfen (un pugno), pruovolo (un ladro inesperto), salmone (inteso come pietanza più che come animale, è la banconota da diecimila lire).

Nomi propri: Carlo (il denaro), Luigi (il portafogli), Vincenzo (la vittima da spennare), Carlina (la morte), Marianna (il complice), Giulio o anche Don Peppe (il vaso da notte), Giggia (la saracinesca), Gregorio (l’ano), cercar la Caterina (in uso a Bologna: prima di svaligiare un appartamento si suonava al citofono e se qualcuno rispondeva, si chiedeva di Caterina. Se invece non c’era risposta voleva dire che la via era libera e si poteva andare su).

Colori: nera (la polizia), paglierini (i finanzieri), moro (il tabacco), rosso (l’oro), bianchetto (l’argento), verdone (la banconota da cinquemila lire), rossa (la banconota da diecimila lire).

Al livello più evoluto del gergo della malavita, troviamo termini pungenti, in cui risuona forte la polemica sociale: sonnambula (la legge), complotto (il processo), carnefice (il giudice), copione (l’incartamento processuale), farisei (i carabinieri), ruffiano (il giornale quotidiano), ingannapopolo (il politico).

________________

Non mancano, infine, a testimonianza della ricchezza della lingua gergale, espressioni poetiche, di intenso realismo o di umorismo, talvolta anche amaro, rassegnato e drammatico.

A Venezia, ad esempio, essere condannati all’ergastolo si diceva “avere le chiavi di cioccolato” (“aver le ciave de ciocolata”), cioè delle chiavi talmente morbide che non apriranno mai alcuna serratura…

I carabinieri, nell’Ottocento, erano detti anche “Fratelli Branca” (forma usata anche dal Gadda nel Pasticciaccio), perché andavano sempre in due per “brancare” i delinquenti (ma era chiara l’allusione al noto digestivo).

Quanto alle forme più poetiche, persino uno strumento di morte come la rivoltella, nel gergo della malavita può diventare una “criatura” (“creatura”, quindi una cosa viva). La cassaforte da scassinare (oltre che la marmotta) è una “dama”, probabilmente per la sua staticità, ma anche per la sua “bellezza” quasi regale; e la morte, che, manco a dirlo, è tra le parole che hanno più voci di tutte, è la “camusa”, ma anche la “certa”, la “cruda” e la “magra”.

***

Interessantissimo il saggio introduttivo e veramente curioso e divertente da sfogliare il ricco vocabolario gergale, consultando il quale si scopre, peraltro, che diverse parole della malavita hanno poi fatto breccia nella “società civile” e sono entrate a far parte dell’uso comune. Una per tutte: colpo, per descrivere un’audace impresa ladresca.

Leggi tutto e partecipa alla discussione sul forum!

Copyright © 2012-2024 di Leviato Holding. Design di Webfox. Tutti i diritti riservati. Nomi, marchi ed immagini appartengono ai legittimi proprietari e sono utilizzati esclusivamente a scopo informativo. Il materiale originale (testi, immagini, loghi, fotografie, audio, video, layout, grafica, stili, file, script, software, ecc.) è di proprietà di Leviato Holding.