Il 1978 fu l’ “Annus Horribilis” del decennio settantiano. L’Italia rimase sconvolta per l’ “attacco al cuore dello Stato” da parte dei terroristi: sequestro e omicidio del presidente della Dc, Aldo Moro, e uccisione dei cinque uomini della sua scorta. Ma in quell’anno successe di tutto e di più. Numerosi altri omicidi e attentati, “gambizzazioni”, manifestazioni di piazza violente e sparatorie. Morte e violenza imperavano quotidianamente. La morte era ormai diventata “di moda”: la Morte e la Moda si accompagnavano l’una a fianco dell’altra, come in un famoso dialogo delle “Operette morali” di Leopardi. E a dire il vero non c’entravano soltanto gli “Anni di piombo”: anche il mondo sportivo diede il suo triste contributo, con la scomparsa del pilota di Formula 1, Ronnie Peterson, in un tragico incidente a Monza. Nel giro di neppure due mesi, poi, scomparvero due Papi. Verso la fine del ’78, io, che avevo solo nove anni, potevo dire di aver già visto, nella mia breve vita, ben tre Pontefici: due soltanto in meno rispetto a mio padre, venuto al mondo quasi trent’anni prima di me.
Dall’Argentina, mentre vi si svolgevano i Mondiali di calcio, giungevano le prime notizie del silenzioso massacro che in quel lontano Paese si stava consumando: centinaia, migliaia di persone venivano fatte sparire nel nulla, torturate e infine uccise – gettate nell’oceano dagli aeroplani – i loro beni, rubati e i figli, bambini ancora in tenera età, collocati come merce di scambio in un abominevole, raccapricciante, mercato clandestino.
Herbert Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine – un uomo che era stato un esperto di morte – dopo essere evaso in maniera rocambolesca dall’ospedale del Celio il 15 agosto 1977, non avrebbe potuto “scegliere” un anno più indicato per scomparire (finalmente) dalla faccia della terra e tornare per questo motivo a far parlare di sé, riempiendo nuovamente le pagine dei giornali, proprio all’inizio di quel 1978.
Lo “scandalo Lockheed” (corruzione, tangenti, politica del malaffare), scoppiato due anni prima, portò alle dimissioni il capo dello Stato, il rappresentante di tutti gli italiani… E non fu anche quella, a suo modo, civilmente, istituzionalmente – eticamente – una morte?
Io, ancora immerso nel liquido dorato dell’infanzia, vedevo e sentivo tutte queste cose come attraverso un vetro. Le sapevo, le avvertivo, ma erano come appartenenti a un mondo a me estraneo, lontano, reale ma impalpabile. Il ’78 per me significa soprattutto “Goldrake”, il robot dal corpo d’acciaio e col cuore nobile di Actarus. Eppure, in un giorno di primavera di quell’anno ormai lontano, venne l’ora in cui anche le mie piccole, e allo stesso tempo grandi, solide, certezze di bambino crollarono e capii semplicemente questo: che anch’io potevo morire, andarmene da questa terra e diventare, all’improvviso, un “angioletto”; compresi che anche il mio cuore, allora non più grande di una cipolla o di un mandarino, che spesso mi piaceva “ascoltare” con la mano, sentir battere nel mio petto come un infallibile orologio, era destinato un giorno a fermarsi. Fu quando, un pomeriggio a casa mia, vidi tutte le cose intorno tingersi di una luce viola, mentre una lama fredda mi si posava sulla fronte. Il tempo di rigurgitare, in pochi secondi, la colazione insieme a tutte le medicine (troppe) che avevo preso, e poi…basta: la lama fredda, dalla fronte calò sulle mie palpebre e fu tutto nero. Finché mi risvegliai, qualche ora dopo, su un lettino d’ospedale con un tubo che mi entrava nella gola. “Non mi potrà salvare nemmeno Goldrake”, pensai dopo un po’che avevo aperto gli occhi. Ma ormai avevo capito che la stanza dove mi trovavo e quei tubi e tubicini che entravano più o meno dappertutto nel mio corpo, non c’entravano nulla con “Atlas Ufo Robot”, non appartenevano al mio mondo dorato, immerso nel liquido. Dovevano c’entrare con qualcosa d’altro, con quel mondo che era là, oltre il “vetro”, e che forse mi stava già aspettando…
Per tutti può arrivare, a qualunque età, un momento in cui si perde ogni certezza, e ciò che sembrava solido e duraturo prima, la stessa robusta percezione di noi stessi, all’improvviso, vacilla e noi, allora… noi non sappiamo più chi siamo né dove stiamo andando. Ma può accadere di peggio. Può darsi che un giorno, come capita ad Ivan Il’ic proprio alla fine della sua esistenza nel famoso romanzo breve di Tolstoj, ci rendiamo conto che tutto il nostro vissuto trascorso era costruito su un castello di menzogne al quale abbiamo fatto finta di credere…
Ora, io penso: quale anno più del 1978 è stato un po’ per tutti il tempo della perdita delle certezze, l’anno in cui la realtà, ogni giorno, superava la più nera delle fantasie?
Ebbene, uno scrittore sensibile e colto com’è stato Giuseppe Pontiggia, rappresentò al meglio tale “comune sentire” nel suo romanzo “Il giocatore invisibile”, pubblicato proprio nell’ “Annus Horribilis” Millenovecentosettantotto dopo Cristo…
Un professore universitario di filologia classica, giunto al culmine della sua brillante carriera, considerato da tutti nel mondo accademico come il più autorevole esperto della materia, un giorno, del tutto inaspettatamente, viene duramente attaccato da un articolo non firmato apparso su una rivista letteraria. Non si tratta di una semplice critica, ma di un vero e proprio attacco che mira a distruggere l’immagine del professore, sia sul piano professionale, sia su quello umano. Il pretesto usato dall’autore anonimo nell’articolo è – guarda caso – l’origine etimologica della parola “ipocrisia”. Il professore, in una rubrica da lui curata su un prestigioso rotocalco, aveva scritto che “ipocrisia” deriva dal verbo greco “hypocrìnesthai”, che significava “simulare”. Ebbene, nella sua accezione più arcaica, risalente ai tempi di Omero, “hypocrìnesthai” non significava affatto “simulare”, ma “interpretare” o “rispondere”. Solo in epoca successiva, posteriore alla tragedia greca, iniziò a diffondersi l’uso della parola “ipocrita” nel senso di “simulatore”, “ingannatore”…
La rivista con l’articolo anonimo circola rapidamente e viene letta da tutti all’Università: professori, assistenti e studenti. Per il professore, che per la prima volta nella sua carriera sente vacillare il suo castello di certezze, inizia un’ossessiva e febbrile investigazione volta a scoprire l’identità del suo anonimo persecutore. Il romanzo si trasforma presto in una sorta di partita a scacchi tra il professore e il “giocatore invisibile”, che rimane sempre nascosto, nell’ombra, e che finisce col determinare ogni pensiero, gesto e azione del protagonista. Vediamo, uno alla volta, passare come sotto una lente d’ingrandimento, i colleghi del professore, che sono tra i principali sospettati: personaggi “grigi”, invidiosi del suo successo, che per anni hanno fatto finta di stimarlo e di essergli amico. Riscopriamo la vita stessa del protagonista come una trama tessuta nel filo dell’ipocrisia: i tradimenti suoi e quelli della moglie, il suo scarso senso etico, la pochezza dei suoi rapporti umani e affettivi. Il mondo del professore a poco a poco si sgretola e la partita col “giocatore invisibile”, alla fine, non è altro che una resa dei conti con se stesso e il proprio destino.
“Scopriamo sempre quello che sappiamo già”, dice un collega al professore in uno dei passaggi cruciali del romanzo…
A tutti può accadere, a qualunque età, di perdere le proprie, relativamente solide, certezze. O peggio: di scoprire di aver vissuto, fino a quel momento, in un mare d’ipocrisia. Come l’Ivan Il’ic di Tolstoj, come il professore di Pontiggia. Assolutamente vero. Mi sento solo di aggiungere, a questa ineffabile verità, che – per fortuna – semmai ce la fossimo dimenticata, possiamo sempre rileggere i buoni romanzi d’un tempo, che ce la ricordano. E ci rendono più preparati alla caducità dell’esistenza, aiutandoci a migliorare noi stessi e ad apprezzare, nel bene e nel male, la nostra vita.
Per il resto, nessuna novità. Il 1978 è passato, da molti anni ormai. Io e tanti altri siamo cresciuti, diventati “grandi”. Nessun vetro ci separa più dalle cose. E, naturalmente, “qualcosa ancora qui non va”: c’è che – per esempio – la Morte e la Moda non hanno ancora smesso di andarsene in giro a braccetto per il mondo…
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Moda. “(…) e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l’una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo“.
G. Leopardi, Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte.