Resta connesso

Libri

Il selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977)

Il selvaggio di Santa Venere (Premio Campiello 1977)

Nel 1977 il Premio Campiello fu vinto dallo scrittore calabrese Saverio Strati (1924-2014) con il suo romanzo intitolato Il selvaggio di Santa Venere.

Ambientato nelle campagne che circondano Reggio Calabria, il romanzo è incentrato principalmente sulle vicende già trascorse di Leo Arcadi, ma contemporaneamente rievoca anche la storia più remota di suo padre, don Mico, e sviluppa quella più recente del figlio di Leo e nipote di don Mico, Dominic. Vi sono dunque tre diversi piani narrativi, tre storie quasi parallele, anche se temporalmente sfasate, che hanno per protagonisti uomini che incarnano tre differenti generazioni.

Se la voce narrante è quella del più giovane, Dominic, la figura che emerge con maggiore incisività è quella del padre, Leo: è lui il “selvaggio”, l’eroe del libro che conquista la simpatia del lettore, l’uomo che più di suo padre e di suo figlio ha sofferto e combattuto con determinazione, coraggio, orgoglio e ostinazione per riuscire a mantenere la propria dignità e la libertà, in una terra e in un ambiente che durante l’infanzia e l’adolescenza gli sono stati fortemente ostili e, soprattutto, senza abbandonare i luoghi dove è nato e cresciuto.

________________

Quella degli Arcadi è una delle tante famiglie contadine dei dintorni di Reggio, che ha ereditato dei terreni e che, lavorando duramente, riesce a mantenere un discreto tenore di vita, coltivando i campi di frutta, i vigneti e gli uliveti, e allevando maiali, pecore e conigli. Don Mico è un gran lavoratore, che insegna fin da bambino a Leo a guadagnarsi il pane faticando nei campi, ma che allo stesso tempo sogna per lui un avvenire diverso: vorrebbe che il figlio studiasse, che non rimanesse un ignorante come lui, che ha frequentato la scuola solo fino alla terza elementare.

Don Mico ha combattuto sul Carso, sull’Isonzo e sul Piave durante la Grande guerra e proprio sotto le armi ha capito l’importanza dell’istruzione e della cultura. Lui, infatti, con la sua terza elementare, era persino uno dei più istruiti del suo reggimento: e si era sentito un privilegiato per questo, perché non aveva avuto bisogno di nessuno per scrivere le lettere da spedire a casa e leggere quelle che riceveva. Anzi, lui era tra quelli, pochissimi fra la truppa, che aiutava la maggioranza degli altri commilitoni, analfabeti, a scrivere le loro lettere per i familiari e le fidanzate, quando erano in trincea e aspettavano di combattere, e spesso di morire.

Ma soprattutto, durante la guerra, don Mico ha conosciuto un capitano che lo ha preso in simpatia, lo ha fatto diventare il suo aiutante e gli ha insegnato tante cose. Don Mico non lo dimenticherà mai: grazie a quel capitano ha capito che se si vuole essere uomini liberi e indipendenti, e non lasciarsi sopraffare dai padroni, bisogna sapere, bisogna studiare.

________________

Leo Arcadi scoprirà troppo tardi che suo padre aveva ragione. A scuola non è riuscito a combinare un granché: è arrivato fino alla quinta elementare, ripetendo l’ultimo anno, e poi ha abbandonato libri e quaderni con gran dispiacere di don Mico. Ma a dire il vero non è stata solo colpa del ragazzino. Vero che il suo ambiente naturale era la campagna e che fin da piccolo si sentiva felice a correre sui prati, ad arrampicarsi sugli alberi, a dare la caccia ai nidi degli uccelli collocati nei posti più pericolosi. Vero che era distratto, che tra i banchi di scuola si sentiva prigioniero e non aveva voglia di applicarsi: ma non per questo non avrebbe potuto, con qualche sacrificio, riuscire negli studi, visto che la testa non gli mancava. Purtroppo è successo che i suoi compagni di classe l’hanno subito preso di mira perché era un campagnolo, mentre loro si sentivano superiori in quanto “cittadini” e hanno iniziato a prenderlo in giro e a tormentarlo con “scherzi” sempre più pesanti. E, come se non bastasse, ci si è messo di mezzo pure il maestro, un capetto fascista della zona, tutto orgoglioso della sua camicia nera e con una fede smisurata nel Duce, che non perdeva occasione per umiliare Leo, insultandolo davanti a tutti quando sbagliava, mettendolo sempre in punizione, in castigo, in ginocchio sui ceci, facendogli addirittura portare delle orecchie d’asino fatte di cartone.

Che rispetto potevano avere per lui i compagni, se lo vedevano trattato in quella maniera dal maestro? Leo era diventato il divertimento di tutta la scuola, lo aggredivano in tanti, lo picchiavano, persino lo denudavano, gli scoprivano le parti intime per deriderlo. E lui, così, è diventato un “selvaggio”: ha cominciato a reagire, a sorprendere i suoi compagni quando erano da soli e a picchiarli, a graffiarli, a morderli come un cane rabbioso. Finché ha dovuto abbandonare la scuola, su consiglio dello stesso maestro che un giorno ha detto a don Mico: “La testa di suo figlio è buona solo per fare pidocchi. Che se ne torni in campagna, fatelo zappare, al Duce serve di più un contadino che un maestro somaro”.

_______________

Così Leo, a dodici anni, va a fare il pastore. Il padre lo manda da solo al podere di Santa Venere, ad allevare i maiali, i conigli e le pecore, e a far la guardia al gregge anche di notte, con qualsiasi tempo. Leo diventa bravissimo, un lavoratore infaticabile, meglio di suo padre. A quattordici anni ha già il fisico di un uomo adulto e molto forte.

E poi, l’incontro con Santo: un ragazzo della sua età, anche lui campagnolo, che lo fa entrare nella ‘ndrina (la ‘ndrangheta). Leo, lasciandosi abbindolare dal suo nuovo amico, pensa che entrare nella mafia sia una grande occasione di riscatto. Gli “omini veri” della ‘ndrina sono rispettati e temuti da tutti. I “mammasantissima”, che sono i capi delle cosche, sono potenti, ossequiati come dei divi e comandano tutti gli altri.

Così, all’insaputa del padre, che odia la mafia e che ripete al figlio che nella vita il pane bisogna saperselo guadagnare onestamente, Leo riceve il “battesimo del sangue e dell’onore” e viene iniziato alla potente cosca di don Nino, un “mammasantissima” che a neanche vent’anni ha messo in fuga due carabinieri e poi si è fatto trent’anni di galera ingiustamente, addossandosi la colpa di un omicidio che non aveva commesso, solo per salvare altri capi famiglia. Trent’anni di reclusione, ma mai nulla è uscito dalla sua bocca: perché il giuramento alla ‘ndrina si fa una volta per sempre ed è meglio morire che tradire. Chi tradisce non è più un “omo vero”.

Leo Arcadi, il “selvaggio”, impara tutto della ‘ndrina, pur facendo ancora parte della “minore” (quella riservata ai ragazzi con meno di ventuno anni): il linguaggio, i segni, il codice d’onore. Gira con la coppola e il coltellino a serramanico sempre pronto in tasca, frequenta l’osteria e va a donne. Il padre, pur non sapendo, si insospettisce, lo sgrida, lo esorta ad allontanarsi da quei farabutti che ti succhiano il sangue, caso mai fosse rimasto invischiato nelle loro oscure trame…

Il ragazzo, dopo un periodo di esaltazione, durante il quale si sente importante e rispettato, comincia a capire, da solo, che quella vita è sbagliata, che quello non è il vero rispetto che merita un uomo, perché si fonda sulla prevaricazione degli altri e perché la ‘ndrina, con le sue leggi spietate, può diventare profondamente ingiusta. L’episodio che per la prima volta gli fa aprire gli occhi è quello di una punizione alla quale la “maggiore” lo fa assistere per temprarlo: un affiliato che non ha difeso l’onore della sua famiglia viene sfregiato con un coltello vicino all’orecchio, in modo che dovrà portare per sempre il marchio dell’infamia: tutti quelli che d’ora in poi lo vedranno, sapranno di avere di fronte un pusillanime, un vigliacco, uno che si è lasciato disonorare e che perciò non è un “omo vero”. E tutto questo solo perché egli non ha lavato col sangue la deflorazione della figlia da parte di un giovane, ma ha acconsentito al matrimonio riparatore. Leo, che ha dovuto assistere alla “cerimonia” della punizione, ne rimane turbato, al punto che per giorni e giorni non mangia, non vuole vedere nessuno e non esce nemmeno di casa.

E infine arriva l’episodio che lo fa rompere definitivamente con la ‘ndrina. La “maggiore” lo usa addirittura per un omicidio, senza neanche dirglielo. Occorre punire, questa volta con la morte, un infame, un traditore, uno che ha collaborato con la giustizia. E gli sgherri di don Nino mandano proprio lui, il giovane Leo, a prendere la vittima a casa per condurla in un certo posto nel cuore della notte, senza spiegargli il perché. Anche l’uomo non sa nulla, anche se Leo, mentre lo accompagna al luogo dell’appuntamento, gli legge negli occhi un certo nervosismo, uno strano terrore. Ed è così che Leo assiste a un omicidio. Ora non si scherza più: essere affiliati alla ‘ndrina non vuol dire solo girare con la coppola e il coltellino, essere serviti per primi all’osteria, avere le donne che ti cadono ai piedi. Ma è anche questo: punire, uccidere. E dover mantenere per sempre il segreto: quello che ora dovrà fare lui, non dovrà mai raccontare a nessuno quello che ha visto, nemmeno ai suoi familiari se non vuole fare una brutta fine.

Dopo aver assistito all’omicidio, la vita di Leo non sarà più la stessa. Non tradirà il patto di sangue, non rivelerà nulla ai carabinieri che verranno a interrogarlo, ma quel segreto gli brucerà per sempre nella sua coscienza e solo molti anni dopo lo racconterà a suo figlio. Dopo quell’episodio Leo si nasconde, non ne vuole più sapere della ‘ndrina, se ne vuole andare anche se sa che è impossibile: è impossibile lasciare da vivi la cosca, perché il patto di sangue ti lega per sempre. Leo, così, vive nascosto nei campi col terrore che vengano a cercarlo per ucciderlo. E la partenza per il servizio militare, e per la guerra, capitano proprio a proposito. Siamo infatti alla fine del 1940 e “il selvaggio di Santa Venere” viene chiamato alle armi: ora il Duce ha bisogno di lui, gli serve carne da cannone per “spezzare le reni” alla Grecia.

_________________

Sotto le armi Leo ritrova i suoi vecchi compagni di scuola ormai cresciuti come lui, e di nuovo è costretto a difendersi, nuovamente lo deridono, lo prendono in mezzo già sul treno in partenza per il Nord, perché lui è rimasto un “campagnolo”, non riuscirà mai a levarsi di dosso quel marchio di ignominia. Per farsi rispettare è costretto ancora a usare la violenza, a “dare di matto”, a comportarsi come un “selvaggio”.

Anche lui come suo padre ha la fortuna di incontrare un ufficiale, un tenente, che lo prende come aiutante e riesce a trasmettergli l’amore per il sapere, facendogli leggere dei libri. E’ qui che Leo, come già suo padre, scopre il valore della conoscenza e si pente amaramente di non aver studiato. Prima di partire per il fronte, passa qualche mese a Bologna e a Firenze, vede e scopre le città, la mentalità e il modo di vivere della gente del Nord e anche, e soprattutto, la maniera di lavorare. Vede, ad esempio, le grandi coltivazioni dell’Emilia-Romagna e inizia a capire che applicando lo stesso metodo produttivo (ordinato, efficiente e “imprenditoriale”) che si usa in queste terre, a quelle del meridione, i contadini del Sud starebbero benissimo, sarebbero più ricchi di quelli del Nord. Hanno più materia prima, più varietà di terra fertile, eppure non sanno farla fruttare, non hanno lo spirito imprenditoriale dei contadini emiliani, lavorano solo per loro stessi e vendono per poche lire i loro prodotti ai signori delle città, anziché inserirli nel mercato. E non lavorano con metodo, si ammazzano di fatica per guadagnare poco o niente.

E poi, nella primavera del 1941, la partenza per la Grecia. Gli orrori della guerra. Il contatto con la morte, fino alla disfatta finale. Leo, dopo la resa del suo battaglione, passa nelle file dei partigiani greci e combatte insieme a loro contro i tedeschi. Dopo l’8 settembre 1943, risulta disperso. Lo danno per morto. Per più di due anni, Leo Arcadi è considerato morto dallo Stato italiano, mentre invece è sulle montagne della Grecia, coi partigiani, e combatte per la libertà di un popolo che egli scopre straordinariamente simile ai pastori calabresi. Nel frattempo Don Mico, a Santa Venere, accende una candela per lui, per quel figlio “scapestrato”, “ribelle”, che non aveva voluto studiare e si era lasciato invischiare nella ‘ndrina; ma che in fondo era stato un buon figlio.

________________

E invece il “selvaggio” ritorna, quando la guerra è già finita da un pezzo, alla fine del 1945. Ed è un uomo fatto ormai, anche se ha soltanto ventiquattro anni. Nel frattempo la vecchia ‘ndrina è stata spazzata via dalla guerra. Dalle sue ceneri sorgerà una nuova e assai più potente mafia: sarà la ‘ndrangheta, un’organizzazione con interessi economici sempre più vasti e legami in tutto il mondo. Sono passati i tempi dei “mammasantissima” e degli sfregi col temperino. Ormai nessuno si cura più di cercare Leo Arcadi e di fargli pagare la sua fuga dalla cosca di don Nino.

Leo è un uomo nuovo. E’ assai tentato di piantare tutto e di andare su al Nord, dove ha visto coi propri occhi che si sta meglio e si lavora in condizioni migliori. Invece, decide di rimanere in Calabria. Si sposa e mette su famiglia. Prende in mano il lavoro, i terreni di don Mico lasciati in gran parte incolti, disordinati e infruttuosi, e comincia ad ammazzarsi di fatica per farli rendere come possono e devono. Lavora come un treno, tutto da solo, e, in poco tempo, riesce a trasformare i poderi di famiglia in una piccola azienda agricola che produce frutta, vino e olio, non solo per i “signori” delle città calabresi, che pagano poche lire, ma anche e soprattutto per gli esportatori, che comprano i prodotti per farli arrivare al Nord, pagandoli il triplo, anche il quadruplo. Leo Arcadi, da contadino, diventa un piccolo imprenditore agricolo e nella sua mente c’è l’idea di progredire sempre di più facendo entrare nella sua impresa anche il figlio, una volta cresciuto e, soprattutto, dopo che avrà studiato.

Ma il figlio, Dominic, la voce narrante del libro, è di un’altra “pasta”. Pur imparando a lavorare la terra insieme al padre, non si innamora di essa. Non gli piace zappare, non prova soddisfazione a vedere i frutti del suo faticoso lavoro. La generazione nata nel dopoguerra è molto diversa dalle precedenti. I giovani nati in campagna non ne vogliono sapere della terra, non vogliono fare i contadini. Vogliono andare a vivere nelle città, studiare, andare all’università, diventare insegnanti, giornalisti, medici, avvocati, ingegneri, ecc. Oppure, come Dominic, che non ha tanta voglia di studiare e si ferma dopo la terza media, preferiscono lavorare in fabbrica, fare gli operai. Qualunque cosa è meglio che sporcarsi con la terra.

Ormai siamo negli anni Sessanta, il Sud si sta spopolando sempre più: non c’è lavoro, molti emigrano, partono per il nord Italia (come già aveva pensato di fare Leo) o anche per andare più su, in Germania, in Olanda, persino in Scandinavia…

Dominic, come tanti altri ragazzi che dopo le scuole medie non vanno avanti a studiare, deve scegliere se rimanere nella sua terra o emigrare. Per lui, a differenza di tanti altri, non è affatto una questione di sopravvivenza economica: infatti, ben potrebbe rimanere a lavorare nell’azienda agricola, contribuendo alla sua crescita e facendo la felicità del padre. Eppure, con molta rabbia e amarezza, egli fa una scelta diversa da quella del “selvaggio”: dopo essere andato a lavorare come carpentiere in una fabbrica del Nord, decide di rimanervi e di non tornare più indietro. Non per un fatto economico, ma piuttosto “sociale”, “esistenziale”: al Nord si vive più liberi, ci si può esprimere in assoluta libertà e non dipendere da nessuno. Al Sud, invece, ci sono molti più “vincoli”, si crede di essere liberi ma non lo si è veramente: basta chiedere un favore a un amico e si rimane legati a lui per sempre, si perde la propria libertà, si dipende da quell’ “amico” finché non si contraccambia il favore. Al Nord, al contrario, non ci sono i “favori”: tutto si paga, anche la cucitura di un bottone, ma almeno non si deve nulla a nessuno e si rimane liberi… E poi, soprattutto, ci si può esprimere, non si deve sempre avere paura di “questo” e “quell’altro” e di “cosa penserà la gente”. Al Sud, invece, si fa tutto perché lo vogliono gli altri e si calcola ogni cosa: anche dietro un gesto di apparente generosità c’è sempre un interesse, un secondo fine, una “ragione di fondo”… E, infine, è proprio il modo di vivere che è diverso: al Sud si potrebbe stare tanto meglio che al Nord se la gente cambiasse mentalità, se non si piangesse sempre addosso, se non “aspettasse la manna dal cielo” e si ribellasse ai politicanti ottusi che lo governano e sono “più disastrosi del terremoto”…

***

Davvero un ottimo libro, che sono molto contento di aver letto, anzi, divorato in soli due giorni, questa estate. Un romanzo forte, che ti spacca il cuore. Strati utilizza un linguaggio asciutto e realistico e una struttura narrativa che si svolge su piani diversi, arrivando quasi a confondere la voce di Dominic con quella del “selvaggio”. E la storia del “selvaggio”, che parte come in sottofondo, si espande sempre di più, si allarga fino ad occupare tutto il libro, talvolta anche ripetendo gli stessi episodi, ma narrandoli in maniera più ampia, arricchendoli via via di nuovi particolari. Leggendo la storia del “selvaggio”, si prova la sensazione di un cerchio che si allarga sempre di più. E il personaggio “buca” davvero la pagina: è uno dei più vivi che mi sia mai capitato di incontrare nelle mie letture e che non si può fare a meno di amare.

Leggi tutto e partecipa alla discussione sul forum!

Copyright © 2012-2024 di Leviato Holding. Design di Webfox. Tutti i diritti riservati. Nomi, marchi ed immagini appartengono ai legittimi proprietari e sono utilizzati esclusivamente a scopo informativo. Il materiale originale (testi, immagini, loghi, fotografie, audio, video, layout, grafica, stili, file, script, software, ecc.) è di proprietà di Leviato Holding.