Nel 1977, mentre in Italia si spara e si moltiplicano gli attentati, i ferimenti e le uccisioni (con una media di tre al giorno), vince il premio Strega un romanzo che non potrebbe essere più lontano da questo “inferno”, che racconta di tutt’altro e ci parla della campagna istriana: un “microcosmo”, un mondo a sé stante, che si sforza di rimanere impermeabile alle tragiche vicende della Storia…
“La miglior vita” di Fulvio Tomizza…
L’Istria è una terra in cui convivono più culture e differenti tradizioni storiche: quella slava (principalmente croata), quella italiana e quella austriaca; ma anche un territorio molto tormentato, appartenuto per secoli alla Serenissima, poi passato all’Impero asburgico, poi al Regno d’Italia e, infine, dopo i fatti della Seconda guerra mondiale, annesso alla Jugoslavia di Tito. Tomizza, scrittore “di frontiera”, originario di quella terra, non ha mai dimenticato il suo legame profondo e viscerale con essa, pur avendo vissuto la maggior parte della sua vita a Trieste. I temi dello sradicamento e della progressiva perdita d’identità delle persone, delle comunità e dei luoghi sono assolutamente ricorrenti nelle sue opere…
Ne “La miglior vita” è narrata in prima persona la storia di un villaggio dell’entroterra istriano, dai primi del Novecento fino all’epoca coeva alla stesura del racconto (1975), vista attraverso gli occhi di un sagrestano, che inizia a fare tale mestiere per tradizione familiare all’età di dodici anni e lo svolge per tutta la sua lunga vita. I protagonisti della narrazione sono tanti – sono tutti, sono gli abitanti del villaggio, ognuno con la sua storia personale che si intreccia con le altre – e ruotano intorno alla parrocchia, che costituisce il cuore della comunità, il fulcro della vita pubblica ma anche delle vite private di ciascuno. Il passare del tempo è scandito dai vari parroci che si succedono negli anni alla guida della parrocchia, ai quali il sagrestano presta il suo servizio, accogliendoli al loro arrivo, imparando a conoscerli e vedendoli poi, uno alla volta, andarsene dal paese: salutando alcuni con rammarico, altri con sollievo. Il romanzo, denso di avvenimenti privati ma anche di riferimenti storici precisi e puntuali, frutto di una ricerca approfondita e meticolosa dell’Autore, rende perfettamente la commistione tra sacro e profano, la contaminazione dell’elemento religioso dai riti propiziatori, pagani, tipici della cultura contadina arcaica. Non mancano gli episodi divertenti, ma anche la rappresentazione della miseria, delle asperità della vita contadina, delle ingiustizie e dei soprusi, spesso consumati nella quiete sommersa della campagna. Su tutto domina il villaggio, che sembra quasi avere un corpo, con un cuore e un cervello suoi propri, e che dopo avere a lungo resistito alle guerre e ai colpi sferzanti della Storia, allo spopolamento, all’insediamento di nuove etnie, alle pianificazioni urbanistiche e agli espropri, alla crescente espansione delle città che divorano le campagne, finisce con lo sgretolarsi, nel corpo e nell’anima, perdendo in maniera definitiva la propria, perennemente incerta, identità…
Di questo libro, che ho letto per la prima volta quando avevo solo diciassette anni, mi ha colpito specialmente un concetto, molto semplice e profondo, che viene riportato in una sola frase proprio alla fine della narrazione, e che ancora oggi mi fa venire i brividi. Il concetto è questo: ogni volta che una persona muore, è come se morisse anche il mondo. Credo proprio che sia vero; anzi, io estenderei questa idea ad ogni essere vivente. Gli occhi di un qualsiasi essere animato sono come una finestra aperta sul mondo: quando la finestra si chiude, scompare anche il mondo che attraverso essa si vedeva…
Chissà, forse, se qualcuno dei giovani che nel ’77 scelsero la “lotta armata” avesse prima letto questo libro di Tomizza, ci sarebbe stato qualche morto in meno. Forse è più difficile sparare a un uomo inerme quando pensi che ammazzandolo, uccidi anche il mondo. “Forse”…
Ecco, allora, il passo finale de “La miglior vita”, che mi piace rileggere oggi come se fosse dedicato, in particolare, a tutte le vittime del terrorismo, visto anche e soprattutto l’anno in cui venne pubblicato…
“Oggi 23 gennaio 1975 tremo in tutto il corpo, nessun fuoco riesce a scaldarmi. Non mi resta che mettermi a letto lasciando la porta socchiusa. Una pronipote di Palmira verrà stasera a portarmi il latte. Ho dato un’occhiata alla finestra lisciando il vetro appannato col dorso della mano, e sono giunto alla scrivania con un estremo sforzo di volontà. Da un sole che non vedevo, sul campanile, sulla chiesa e sul muro bianco di cinta cadeva una luce appena dorata. Dentro a questa luce tutte le cose liberate della loro pesantezza, quasi svuotate da ogni materialità, parevano mescolarsi e sollevarsi insieme. Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo muore a ogni morte di un uomo”.