Ettore Majorana, fisico di fama mondiale. Definito da Enrico Fermi (premio Nobel per la Fisica nel 1938) “un genio della statura di Galileo e Newton”. Nato a Catania il 5 agosto del 1906 e misteriosamente scomparso a soli trentuno anni: le sue tracce si perdono dal 26 marzo 1938, fra la partenza e l’arrivo di un viaggio per mare su un piroscafo, da Palermo a Napoli.
Gli inquirenti dell’epoca archiviano frettolosamente il caso: “Scomparsa (con proposito di suicidio) del Prof. Ettore Majorana” è scritto sui pochi e scarni incartamenti della polizia fascista. Le autorità italiane lasciano intendere che Majorana si è suicidato, senza tuttavia aver avuto, né più di tanto cercato, le prove di questo misterioso suicidio.
Facciamo ora un salto in avanti nel tempo. Di trentasette anni. Nell’Italia degli anni Settanta già sconvolta dalle bombe neofasciste, ancora attanagliata dalla crisi economica ed energetica, attraversata da forti tensioni sociali, con il Partito comunista in ascesa che “sogna” il sorpasso elettorale alla Democrazia cristiana; nell’Italia scioccata da efferati delitti come quello del Circeo e alla vigilia di un altro misterioso ed orrendo crimine, dalle tinte fosche ma anche fortemente “politiche”, come l’omicidio di Pasolini, Leonardo Sciascia, un altro grande siciliano – letterato, scrittore, giornalista e intellettuale – dà alle stampe per la prima volta un suo eccellente lavoro dedicato al geniale fisico catanese: “La scomparsa di Majorana”, prima pubblicazione: anno 1975.
Si tratta di uno scritto breve che ha la struttura e la forza di un romanzo e allo stesso tempo la lucidità di un saggio. Che non è e non vuole essere un “libro-inchiesta”: Leonardo Sciascia non intende “riaprire” il caso Majorana, non va alla ricerca minuziosa di tutti gli indizi che possono portare a una conclusione diversa dal suicidio; non gioca a fare il detective, non fa quello che avrebbe dovuto fare la polizia degli anni Trenta. Ma offre per la prima volta un’interpretazione del tutto letteraria di questa oscura vicenda, ponendone al centro proprio lui, Ettore Majorana;ripercorrendo la sua breve vita “conosciuta” ed analizzandone la complessa e tormentata personalità. E giungendo infine ad ipotizzare una nuova, affascinante spiegazione della scomparsa dell’uomo che a soli ventitré anni si laureò in Fisica teorica con una brillante tesi dal titolo: “La teoria quantistica dei nuclei radioattivi” (Relatore: Sua Eccellenza Professor Enrico Fermi).
Un’ipotesi, quella formulata da Sciascia, che ancora oggi commuove e fa venire i brividi.
La tesi del suicidio, lasciata intendere come quella più probabile dalla polizia fascista, si fonda su due lettere scritte da Majorana, che portano entrambe la data del 25 marzo 1938, giorno precedente a quello della sua scomparsa. La prima viene impostata da Majorana a Napoli, poche ore prima della sua misteriosa partenza col piroscafo per Palermo, ed è indirizzata al Professor Carrelli, direttore dell’Istituto di Fisica napoletano, dove Majorana insegna da circa tre mesi:
“Caro Carrelli, ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. Anche per questo ti prego di perdonarmi, ma sopra tutto per aver deluso tutta la fiducia, la sincera amicizia e la simpatia che mi hai dimostrato in questi mesi. Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciti; dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo”.
La seconda lettera, sempre del 25 marzo, viene lasciata da Majorana a Napoli, nella camera dell’albergo dove alloggia, ed è per i suoi familiari:
“Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi”.
Vi sono poi: un telegramma urgente, spedito da Majorana il giorno seguente, 26 marzo, da Palermo, per lo stesso Professor Carrelli, col quale egli lo prega di non tener conto della lettera spedita il giorno prima e, infine, un’ultima missiva spedita qualche ora dopo ancora a Carrelli:
“Caro Carrelli, spero che ti siano arrivate insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli”.
Invece non ci sarà più il tempo per la spiegazione di alcun ulteriore dettaglio. Quella sera stessa, del 26 marzo 1938, secondo la polizia Majorana si imbarca, alle ore 7, sul piroscafo, per il suo viaggio di ritorno a Napoli. A questo punto si perdono le tracce del giovane fisico: l’ipotesi mai chiaramente detta ma lasciata intendere dalle autorità italiane è che egli si sia gettato in mare durante il viaggio da Palermo a Napoli. Secondo la testimonianza di un passeggero, invece, Majorana giunge effettivamente a Napoli e sbarca dal piroscafo insieme a tutti gli altri, alle ore 5 e 45 del 27 marzo. Dopodiché a Napoli scompare, inghiottito nel nulla. Per sempre.
Sciascia non crede alla versione del suicidio per diversi motivi. Anzitutto, risulta che Majorana nei giorni precedenti alla sua scomparsa avesse ritirato tutti i suoi risparmi dalla banca e avesse con sé il passaporto. Altri dubbi derivano da un’attenta lettura delle sue ultime lettere: gli scritti lasciati dalle persone che si suicidano sono sempre caratterizzati da un’alterazione della grafia e da una certa scompostezza. Quelli lasciati da Majorana, invece, colpiscono per la grafia perfettamente ordinata. Conoscendo poi la passione del fisico per gli enigmi e per i rebus, le sue lettere sembrano costruite come un gioco al limite dell’ambiguità: l’uso della parola “scomparsa” anziché “morte”; l’ora indicata precisamente nella prima lettera (le “undici di sera”) e tuttavia scritta non chiaramente come il momento della sua morte, ma piuttosto come un limite oltrepassato il quale egli spera di poter ricordare ancora i suoi amici: potrebbe trattarsi dell’espressione di un dubbio sull’immortalità dell’anima, ma potrebbe anche essere, quel momento esattamente indicato, una specie di “soglia” oltre la quale Majorana intendeva iniziare una nuova vita. Inoltre, perché proprio le “undici di sera”? A quell’ora il piroscafo del 25 marzo, diretto a Palermo e partito alle 22.30, si sarebbe trovato ancora nel golfo di Napoli, in vista del porto e delle luci della città: i viaggatori tutti sopracoperta e i marinai in movimento avrebbero certamente notato un uomo che si fosse buttato in mare e molto probabilmente lo avrebbero tratto in salvo. In entrambe le lettere, infine, vi sono dei numeri: l’11 nella prima e il 3 (i “tre giorni di lutto”) nella seconda. Non è escluso che quei numeri, considerata la mente matematica di Majorana, possano avere un preciso significato.
Sciascia ha forti dubbi anche sul fatto che Majorana sia effettivamente salito sul piroscafo per Napoli la sera del 26 marzo. Dai documenti di viaggio del piroscafo risulta che quel giorno viaggiavano nella stessa cabina (senza conoscersi ed essersi mai visti prima) il Professor Strazzeri, docente all’Università di Palermo, il Professor Majorana e un tale inglese di nome Price (che non fu mai cercato dalla polizia). Il Professor Strazzerisi disse certo che i due uomini che avevano viaggiato con lui nella stessa cabina sbarcarono regolarmentea Napoli la mattina del 27 marzo. Uno di essi, secondo la testimonianza di Strazzeri, era un italiano che “parlava come noi, gente del sud, ma che aveva modi piuttosto rozzi, da negoziante o giù di lì”. L’altro, invece, era rimasto sempre in silenzio e non aveva scambiato mai una parola con nessuno degli altri due passeggeri: a detta del Professor Strazzeri, questo secondo silenzioso passeggero avrebbe potuto essere Ettore Majorana. Tuttavia, dinanzi alla fotografia di Majorana, il professore non si disse affatto sicuro di poterlo riconoscere nel suo compagno di viaggio. Rimane in ogni caso l’enigma dell’inglese Price, dal momento che il passeggero che scambiò qualche parola con Strazzeri parlò in italiano e con accento del sud. Sciascia azzarda la seguente ipotesi: l’uomo rimasto in silenzio durante il viaggio era l’inglese, che non conosceva la lingua italiana; mentre l’altro, col quale il Professor Strazzeri scambiò qualche parola, potrebbe essere stato un siciliano che viaggiava col biglietto cedutogli da Majorana poco prima della partenza del piroscafo…
Per Sciascia è dunque probabile che Majorana non sia mai salito sul piroscafo per ritornare a Napoli e che sia invece rimasto a Palermo. Ecco allora prendere corpo, nel romanzo dello scrittore siciliano, l’altra ipotesi: Ettore Majorana avrebbe scelto non di morire, ma di “ritirarsi” dal mondo, di scomparire per sempre oltre la soglia della vita conosciuta per rifugiarsi in uno spazio segreto e libero, dove continuare a vivere in un “altro modo”. Come in un romanzo pirandelliano, Majorana avrebbe architettato la sua fuga dal mondo, organizzandola e calcolandola, entrando in una “condizione in cui dimenticare, dimenticarsi ed essere dimenticato”. Come Mattia Pascal, il personaggio del romanzo di Pirandello, egli avrebbe scelto, a un certo punto della sua vita, di sottrarsi alle convenzioni e al penoso, inutile dovere di vivere in conformità al suo ruolo. Oppure, in maniera ancora più calzante secondo Sciascia, essendo Majorana un uomo solitario, egli avrebbe progettato un “nuovo modo di essere solo”, abbandonando l’esistenza borghese per condurre una vita sconosciuta e senza memoria, sfuggendo alla trappola in cui i fatti del vivere quotidiano tengono prigioniero l’uomo: come Vitangelo Moscarda, il protagonista di “Uno, nessuno e centomila”, l’altro famosissimo romanzo di Luigi Pirandello.
Leonardo Sciascia ripercorre brevemente il vissuto trascorso del fisico catanese, fino al 26 marzo 1938, cogliendo in esso un progressivo desiderio di solitudine e isolamento, che sarebbe infine sfociato nella meditata e calcolata decisione di rinunciare alla sua vita di scienziato, scomparendo per sempre. Del resto lo stesso Enrico Fermi, all’indomani della scomparsa del suo giovane collega, disse: “Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe certo riuscito”.
Ettore Majorana fu un genio precoce. A tre-quattro anni, come ad altri bambini a quei tempi si facevano recitare ai parenti e agli amici in visita poesie come “La vispa Teresa”, al piccolo Ettore si davano prove di calcolo: moltiplicare tra loro due numeri di tre cifre, estrarre radici quadrate e cubiche. E lui, vergognandosi come tutti i bambini costretti ad esibirsi, si rifugiava sotto il tavolo. Ma in pochi secondi dava la soluzione esatta, lasciando a bocca aperta tutti gli adulti.
Nel 1929, dopo la laurea inizia a frequentare l’Istituto di Fisica teorica diretto da Enrico Fermi, a Roma: sono gli anni dei “ragazzi di via Panisperna”. Anche allora Majorana stupisce tutti per la sua intelligenza e le sue geniali intuizioni. Entra presto in competizione con lo stesso Fermi, un fisico a quei tempi già di “chiara fama”. Laura Fermi, moglie del premio Nobel, ricorda di piccole gare di matematica che si svolgevano durante le pause di lavoro nell’Istituto: mentre Enrico Fermi utilizzava carta e penna e talvolta anche il regolo calcolatore, Majorana calcolava tutto a mente, voltandosi di spalle e dando la soluzione esatta prima di tutti.
Ma già allora era evidente il suo carattere introverso, la scarsa propensione a “far gruppo” e la sua ritrosia a far conoscere e a pubblicare l’elaborazione delle sue teorie, spesso scritte quasi per gioco, scarabocchiate sui pacchetti di sigarette (che fumava in grande quantità) e infine cestinate. Accadde così, come testimoniato dagli altri “ragazzi” di via Panisperna, che un giorno del 1932 Majorana gettò nel cestino della carta straccia i calcoli che dimostravano la teoria del “nucleo fatto di protoni e neutroni”, ben sei mesi prima che essa venisse pubblicata a Lipsia ed entrasse nella Storia come la “Teoria di Heisenberg”.
L’incontro con il celebre fisico tedesco WernerKarl Heisenberg (premio Nobel nel 1932) segna un punto cruciale nella vita di Majorana. Egli si trasferisce a Lipsia all’inizio del 1933 e collabora col fisico tedesco fino ai primi di agosto di quello stesso anno, approfondendo in quei sei mesi gli studi sulla struttura del nucleo. Ritornato a Roma, per i successivi quattro anni conduce una vita appartata, facendosi vedere poche volte all’Istituto di via Panisperna. Le persone che in questo periodo ebbero occasione di incontrarlo, riferiscono che Majorana se ne stava assai spesso chiuso in casa, dove “lavorava per un numero eccezionale di ore al giorno”. Eppure di questo periodo così intenso di studi ci rimangono solo due scritti: la “Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone”, pubblicata nel 1937, e il saggio sul “Valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle leggi sociali”, pubblicato dopo la sua scomparsa.
All’inizio del 1938, infine, Majorana si trasferisce a Napoli, dove inizia ad insegnare all’Istituto di Fisica. Anche durante i suoi ultimi tre mesi prima della scomparsa, egli conduce una vita solitaria, facendo lunghe passeggiate sul lungomare o rimanendo chiuso nella camera dell’albergo dove alloggia. Il Professor Carrelli, che talvolta alla fine delle lezioni riesce ad intrattenersi con Majorana, “conversando per lo più di Fisica”, afferma di aver avuto l’impressione che egli stesse lavorando a qualcosa di “molto impegnativo, di cui non desiderava parlare”.
Eccoci, dunque, arrivati al cuore dell’affascinante romanzo di Sciascia: Ettore Majorana avrebbe deciso di scomparire perché a partire dal suo incontro con Heisenberg, nel 1933, i suoi studi sempre più intensi sulla struttura del nucleo lo avrebbero portato a intuire, a “vedere” la bomba atomica, con diversi anni di anticipo rispetto alla “scienza ufficiale”. Nulla di strano per un “genio della statura di Galileo e Newton”, che sei mesi prima della pubblicazione della “Teoria di Heisenberg” sul “nucleo fatto di protoni e neutroni”, l’aveva già scritta e spiegata ai suoi colleghi. Se Majorana era un genio, perché non avrebbe potuto vedere o intuire quello che gli altri scienziati ancora non vedevano o non intuivano?
Ma la responsabilità di questa sua scoperta – o se si preferisce di questa “visione” – lo schiacciò moralmente: posto dinanzi al problema etico del rapporto fra scienza e potere politico, egli preferì rinunciare alla vita e alla stessa scienza (che per lui coincidevano), consapevole che da quella scoperta sarebbero derivate soltanto morte e distruzione per il mondo intero…
Non è nuova in letteratura la tematica della responsabilità morale dello scienziato e del suo rapporto con la classe politica dirigente. Nel 1962, lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt aveva pubblicato il dramma teatrale “Die Phisiker”, dove il fisico Mobius giunge alla decisione di rinnegare la sua scienza, perché essa può solo nuocere all’umanità. Nel dramma di Durrenmatt, la scelta di rifiutare l’asservimento della scienza al potere politico viene rappresentata in un manicomio: Mobius finge di essere pazzo piuttosto che mettere a disposizione dei governanti le sue scoperte scientifiche. Meglio essere pazzo e prigioniero in un manicomio –ma rimanere in realtà “libero e innocente” – piuttosto che essere complice della distruzione di massa.
Rimane un ultimo tassello per il completamento della suggestiva ricostruzione di Leonardo Sciascia: dove andò a rifugiarsi Majorana? Quale fu il suo “nuovo modo di essere solo”? Non si può affermarlo con certezza: ma può darsi che la “prigione” in cui egli andò a trascorrere il resto della sua vita da uomo “libero e innocente”, come per Mobius fu il manicomio, per lui sia stato un monastero.
Non una vera e propria testimonianza è alla base di questa ipotesi, ma un sospetto, un ricordo di un amico di Sciascia, che gli confida di aver sentito dire, ancora nel lontano 1945, che in un convento di monaci certosini di Palermo viveva a quei tempi, fra i “padri” che si dedicavano alla vita contemplativa, “un grande scienziato”.
Sciascia si reca allora in visita in questo monastero di certosini, accompagnato da un monaco che lo guida per i corridoi, le scale, le celle e, infine, dinanzi al piccolo cimitero. Non ci sono tracce evidenti della presenza di Majorana, né attuale né già trascorsa. Tuttavia il certosino che lo guida, talvolta elude le sue domande, specialmente quelle troppo dirette. Ma le “indagini” di Leonardo Sciascia si fermano qui: immerso nell’atmosfera mistica che si respira nel monastero, egli avverte nella propria coscienzal’obbligo di rispettare i segreti che aleggiano in quella pace e in quella tranquillità.
Ci rimane dunque il dubbio. Ma è forte la tentazione, giunti alla fine del libro, di crederlo e basta.
Di credere che Majorana abbia infine trovato la pace che stava cercando; che quel suo “nuovo modo di essere solo” lo abbia aiutato a vivere il resto dei suoi giorni sentendosi appagato, “libero e innocente” di fronte a tragedie immense della Storia, come Hiroshima e Nagasaki…
Facciamo infine un ultimo salto in avanti nel tempo. Dall’anno in cui apparve questo romanzo di Sciascia ai nostri giorni.
L’ “incubo nucleare” è forse oggi meno sentito rispetto agli anni Settanta, perché il mondo non è più diviso in due blocchi ideologici con a capo le due superpotenze e la “Guerra fredda” appartiene ormai alla Storia. Ma non per questo l’uomo ha smesso di costruire armi sempre più sofisticate e micidiali, al punto che la bomba atomica esplosa a Hiroshima, che forse era stata intuita da Majorana, è ben poca cosa rispetto al potenziale distruttivo raggiunto dai missili e dalle bombe nei decenni successivi. Noi settantiani siamo tutti cresciuti un po’ “all’ombra” dell’incubo nucleare e abbiamo sentito dire fin da bambini che intere nazioni e continenti, e persino l’intero pianeta possono finire distrutti in una guerra atomica.
Ma allora esiste ancora un problema di responsabilità etica dello scienziato di fronte alle sue scoperte? Esistono ancora scienziati, oltre che così geniali, anche scrupolosi e moralmente sensibili come Ettore Majorana, capaci di una scelta così estrema come fu la sua pur di non essere complici dei governi che decidono di usare nelle loro guerre i ritrovati della tecnologia?
Ma che domande mi sto ponendo? Oggi, e ormai da più di vent’anni, come tutti abbiamo potuto vedere (praticamente in diretta televisiva) le armi colpiscono e distruggono con estrema e calcolata precisione. Le bombe abbattono edifici e centrano, con intelligenza, soltanto gli obiettivi strategici programmati. Distruggono, ma con intelligenza. E se per caso uccidono, se cadono anche su qualche ospedale o su una scuola o sopra il mercato in pieno giorno, è solo per errore. Le bombe oggi sono diventate intelligenti, molto intelligenti. Forse anche più intelligenti degli uomini che le creano, le usano e le vendono.