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L’Eskimo in redazione

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Sottotitolo: Quando le Brigate rosse erano “sedicenti”. Interessante libro scritto dal giornalista Michele Brambilla, apparso per la prima volta nel 1991 e successivamente ristampato, volto a dimostrare come la stampa italiana, salvo qualche rara eccezione, negli anni dal 1969 al 1977, fosse sensibilmente allineata a sinistra, supinamente e strumentalmente piegata ai voleri di questa parte politica, al punto da riportare le notizie in maniera falsata o distorta.

La tesi del libro è chiara fin dalla breve e incisiva presentazione firmata da Indro Montanelli (una delle poche eccezioni alla tendenza sinistroide del giornalismo degli anni Settanta): non solo la stampa, in verità, ma anche la maggior parte degli intellettuali italiani, in quegli anni, si appiattirono in un desolante conformismo di sinistra, che le portarono addirittura a “fiancheggiare”, in un certo senso, l’eversione “rossa” (vedremo nel prosieguo come e in che senso).

Quasi tutti i giornalisti di sinistra, solo quando la violenza delle Brigate rosse raggiunse il suo apice con il sequestro Moro e la strage di via Fani (siamo quindi nel marzo del 1978), si resero conto che oltre a un terrorismo di matrice fascista ce n’era anche uno, uguale e contrario, di ispirazione marxista-leninista e quindi di sinistra. Fino a quel momento anche i delitti di matrice rossa venivano da essi attribuiti all’eversione di destra: essi negavano nei loro articoli, e pur scrivendo su giornali indipendenti, che il male potesse arrivare anche da sinistra. Il terrorismo e tutto il male non poteva che provenire da destra. Oltre a questo, essi vedevano complotti (di destra) anche dove era evidente che non c’era nessun complotto o almeno non appariva così scontato che un complotto politico ci fosse.

Sia Montanelli nella presentazione, sia Brambilla nelle pagine del libro, ammettono che alcuni di questi intellettuali e giornalisti erano senz’altro in buona fede e infatti, anche se col senno di poi (ma meglio tardi che mai), fecero successivamente “autocritica”; altri, invece, furono intellettualmente disonesti e fecero finta di non vedere la realtà: non certo perché volessero fare il “gioco” dei terroristi rossi (i quali, anzi, erano persino infastiditi di essere scambiati per fascisti), ma piuttosto lo fecero per un “vile conformismo”, per mancanza di coraggio e onestà e lucidità intellettuale: è soprattutto questo che l’Autore e l’illustre presentatore del libro rimproverano alla gran parte della classe intellettuale e giornalistica degli anni Settanta.

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Premettendo fin d’ora che sostanzialmente condivido, anche se con le dovute precisazioni e distinzioni, la tesi di questo libro, passo ad illustrarne brevemente i contenuti, raggruppandoli in dei capitoletti e riportando alla fine di ognuno di essi un mio commento personale.

Le “sedicenti” Brigate rosse

Pur avendo le Brigate rosse, negli anni tra il 1970 e il 1974, ampliamente dimostrato la loro violenza e non potendo esserci dubbi sulla loro connotazione ideologica di estrema sinistra, la maggior parte della stampa italiana faceva fatica addirittura a riconoscere la loro esistenza: si scriveva poco dei loro delitti e si diceva o si lasciava intendere in maniera piuttosto subdola che i brigatisti o erano un’invenzione dello Stato (di un apparato deviato di esso) o che comunque erano di destra: in altre parole si tendeva ad inserirli nello stesso filone dello stragismo neofascista, nel quadro della “strategia della tensione”.

L’articolo più emblematico citato da Brambilla, a questo proposito, apparve sul Corriere della Sera il 3 maggio 1974 (dunque in pieno sequestro Sossi) e si intitolava: “Sedicenti Brigate rosse in azione a Milano e a Torino”. In esso veniva riproposta la tesi, già ampliamente diffusa, secondo la quale i brigatisti rossi erano “sedicenti”, ossia erano in realtà dei provocatori di regime “travestiti di rosso”, interessati a diffondere il disordine e la paura nella gente, soprattutto in vista delle votazioni per il referendum sul divorzio. In pratica, per frenare la ventata di cambiamento che la vittoria dei divorzisti avrebbe portato al Paese, il regime ricorreva alla “strategia della tensione”, compiendo atti terroristici per infondere nelle persone la paura del cambiamento e per indurle, quindi, a votare contro il divorzio.

Ma ci sono tanti altri articoli in cui si dubita, anzi, praticamente si nega, l’esistenza delle Brigate rosse. Forse il più clamoroso, se non altro per la prestigiosa firma, è quello di Giorgio Bocca, apparso su Il Giorno del 23 febbraio 1975, dal titolo: “L’eterna favola delle Brigate rosse”. Eccone alcuni stralci, riportati paro paro da Brambilla:

A me queste Brigate rosse – è Bocca che scrive – fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla”.

Ancora: “Questi brigatisti rossi vogliono essere incriminati ad ogni costo, conservano i loro ‘covi’, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull’auto di Curcio, al momento dell’arresto (8 settembre 1974), vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c’è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi… E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari”.

E, infine, Bocca conclude: “Una cosa è certa, le vigilie elettorali hanno per queste Brigate rosse un effetto da flauto magico, duo o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse”.

In pratica, in questo articolo apparso sul Giorno all’inizio del 1975, Bocca avanza la tesi secondo cui i brigatisti sono “terroristi di Stato”, perché compiono i loro delitti sempre in prossimità di consultazioni elettorali e perché fin troppo evidenti sono le prove, trovate dalle forze dell’ordine, che qualificano quei delitti come ideologicamente di sinistra. (Bocca è uno di quei giornalisti che poi ammisero pubblicamente il loro errore, facendo autocritica. La fece in un lungo articolo apparso su L’Espresso nel 1979).

La tesi che vedeva nei brigatisti dei terroristi di Stato fu ripresa da tanti altri giornali, quotidiani e settimanali.

Su Panorama (che negli anni Settanta era di sinistra), nel 1973, all’epoca del sequestro di Ettore Amerio (un dirigente della Fiat), in un articolo intitolato “A tutto sequestro”, si leggeva: “Molti continuano a domandarsi se le Brigate rosse siano effettivamente un gruppuscolo esasperato dell’estrema sinistra, un’organizzazione di estrema destra camuffata, o se addirittura qualche gruppetto nazimaoista o fascista non abbia usato la sigla e i metodi delle Brigate rosse per aumentare la tensione a Milano, proprio nei giorni in cui si sta formando il nuovo governo di centro sinistra…”.

In un articolo dell’Unità, sempre del 1973, dal titolo “Professionisti della provocazione”, i brigatisti vengono definiti per la prima volta “sedicenti”, perché sono in realtà o “fascisti” oppure al servizio delle “istituzioni deviate”.

Un’altra prestigiosa firma, quella di Andrea Barbato, sulla Stampa, in un articolo del 1974, riprende la tesi dei brigatisti che sono in realtà “anti-divorzisti”: vogliono creare il panico per impedire la vittoria del NO al referendum di maggio (cioè NO all’abrogazione della legge che prevede il divorzio): “Fra otto giorni gli italiani sono chiamati a votare su un importante dilemma civile, e neppure una mente infantile come quella che ha immaginato le azioni di Torino, Milano e Genova (cioè il sequestro Sossi) può ignorare che una comunità spaventata potrà esprimere una scelta non serena e non lungimirante…”.

Giorgio Galli (famoso politologo) ancora su Panorama, nel maggio del 1974: “Si vogliono spaventare gli italiani, ma non troppo; quel tanto che basta a conseguire non sostanziali mutamenti di rotta politica, ma modificazioni marginali di comportamento elettorale. Il risultato da ottenere è che i settori incerti dei votanti del 12 maggio si orientino verso una scelta più vicina alla legge e all’ordine…”.

Il Secolo XIX, quotidiano di Genova, all’indomani del sequestro Sossi (18 aprile 1974), in un articolo intitolato “Le misteriose Brigate rosse”, riproponeva la tesi della “strategia della tensione”: l’articolista, dopo essersi chiesto chi sono “queste Brigate rosse”, concludeva affermando che l’obiettivo era quello di scardinare le istituzioni democratiche per far poi intervenire le forze militari che, riportando l’ordine, avrebbero instaurato una dittatura fascista: in pratica, lo stesso disegno eversivo della strage neofascista di piazza Fontana.

Furio Colombo, sulla Stampa, sempre nei giorni del sequestro Sossi: “Le Brigate rosse intervengono sempre nei momenti tesi, in cui c’è ansia e paura…Ansia e paura aumentano. E la gente tende a chiedere protezione e maniere forti. Per esempio durante la sospensione delle trattative sindacali della Fiat e durante certi delicati momenti elettorali…”.

Potrei qui proseguire con tanti altri articoli citati da Brambilla, apparsi in quegli anni sul Corriere della Sera, sulla Stampa, sul Giorno, sul Corriere d’Informazione, sull’Unità, su Paese sera; uno persino di Sandro Pertini, pubblicato sul settimanale Il Mondo nel 1974: “Quella gentaglia ha usurpato un colore che è sacro per noi socialisti e comunisti. Quando conosceremo i connotati di costoro, scopriremo quello che si è già scoperto dopo la strage di piazza Fontana: una pista rossa diventata nera…”.

Ma è inutile che io prosegua, ormai credo che il senso si sia pienamente compreso: i giornalisti italiani che si occupavano di politica nella prima metà degli anni Settanta, non volevano ammettere l’esistenza di un terrorismo rosso.

Sole eccezioni furono, in quegli anni, oltre a Montanelli, Giampaolo Pansa e Walter Tobagi, che rispettivamente su La Stampa e su L’Avvenire, in alcuni articoli non sottovalutarono il terrorismo rosso e ne riconobbero fin da subito l’esistenza e il pericolo (Walter Tobagi, com’è noto, fu ucciso in un vile agguato terroristico, di matrice rossa, anche se non dalle Br, nel maggio del 1980).

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Questa sulle Brigate rosse è la parte del libro che ho trovato più interessante. Certamente leggere quegli articoli fa venire i brividi, pensando soprattutto a ciò che è successo dopo, a quanto sangue hanno versato le Brigate rosse e altre sigle terroristiche di estrema sinistra. Non voglio giustificare quei giornalisti e articolisti: essi hanno commesso errori che oggi sono evidenti. Tuttavia, a parte la buona fede, che è indubitabile in gente come Giorgio Bocca o Sandro Pertini, vorrei anche aggiungere due considerazioni che, a mio parere, se non valgono a giustificare gli errori di analisi e valutazione, sono certamente delle circostanze che attenuano le responsabilità e rendono più plausibili quegli articoli.

Primo: è del tutto comprensibile, in una Repubblica nata dalla Resistenza e dall’antifascismo, che si faccia difficoltà ad ammettere che il male provenga (anche) da quella forza politica che tanto ha contribuito alla conquista della libertà e della democrazia. E’ sempre difficile accettare il fatto che si ha una “serpe in seno”. Insomma, è un po’ come la madre che non ammette mai che il proprio figlio è un delinquente, anche quando i carabinieri vengono ad arrestarlo a casa perché ha la droga nascosta nel cassetto.

Secondo: dopo i fatti di piazza Fontana, dopo che per due anni la polizia e la magistratura hanno perseguitato anarchici e rossi mentre i responsabili erano fascisti al servizio dei poteri deviati, non mi pare così strampalato credere che anche le Brigate rosse rientrassero nel disegno dei poteri occulti e della “strategia della tensione”. Francamente, posso capire chi è caduto in questo errore dopo quello che era successo a Milano il 12 dicembre 1969 e nei quasi tre anni seguenti: appena nel 1972 si aprì la “pista nera” per la strage di piazza Fontana, che era appunto quella giusta. Se chi metteva le bombe era lo Stato con le sue trame nere, perché non poteva esserlo anche chi sequestrava i magistrati?

Certo, sono stati più bravi i giornalisti che non sono caduti nell’errore di considerare di destra le Br. Ma forse non vi sono caduti proprio perché non erano di sinistra o comunque erano molto critici della sinistra. E’ ovvio, allora, che per loro fosse più facile (e persino conveniente), individuare un male “a sinistra”.

Annarumma e il prefetto Mazza

Il 19 novembre 1969, durante una delle tante manifestazioni del cosiddetto “autunno caldo”, a Milano, vi furono violenti scontri fra estremisti di sinistra e forza pubblica. In via Larga rimase ucciso il ventiduenne agente di p.s., Antonio Annarumma. Alcuni manifestanti, dopo essersi impossessati di vari materiali presi in un vicino cantiere edile, li lanciarono contro le jeep della polizia. Un tubolare d’acciaio colpì al capo l’agente Annarumma, che era al volante di una jeep, e lo uccise sul colpo.

Su alcuni giornali si insinuò che Annarumma era morto per un incidente e non era stato ucciso dai manifestanti. E in ogni caso si tendeva a scaricare la colpa sulla stessa polizia, che non avrebbe dovuto intervenire durante la manifestazione.

Eugenio Scalfari venne citato come testimone, perché si trovava alla manifestazione, e riferì di una carica del tutto immotivata della polizia, la quale, peraltro, aveva assicurato che non sarebbe intervenuta. Riferì, inoltre, di non aver notato atteggiamenti particolarmente aggressivi da parte della folla e di non aver visto né bastoni né sassi.

Anche la deposizione dell’assessore comunale ai tributi del Comune di Milano, Giovanni Baccalini, socialista, riferì di una “provocazione gratuita della polizia”.

Quando la sentenza dei magistrati stabilì, sulla base della perizia dei medici legali, che Annarumma era deceduto in seguito a un forte colpo ricevuto al capo da un corpo contundente lanciato da lontano, sui giornali si continuò a scrivere non di omicidio, ma di morte dovuta a “causa sconosciuta”, e si parlò del tubolare in termini dubitativi, scrivendo che Annarumma era stato colpito al capo da un corpo contundente lanciato dalla folla, “secondo la ricostruzione della magistratura”: continuando, dunque, a metterlo in dubbio.

Restando sempre a Milano, circa un anno dopo, all’indomani degli scontri del 12 dicembre 1970, che si verificarono durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di piazza Fontana, il prefetto Libero Mazza inviò al ministro dell’Interno un “rapporto” in cui descrisse in toni molto preoccupati la situazione dell’ordine pubblico nel capoluogo lombardo, invocando l’intervento dell’autorità centrale e parlando sia dell’estremismo di sinistra che di quello di destra.

Quando il rapporto venne reso pubblico, la stampa attaccò duramente il prefetto Mazza. Qui Brambilla rimprovera ai giornalisti il solito “peccato originale” di non voler riconoscere l’esistenza di una violenza di sinistra, e con essa la teoria “degli opposti estremismi” delineata dal prefetto Mazza. Secondo la stampa italiana esisteva soltanto la “strategia della tensione” e le violenze di piazza erano il risultato di provocazioni della destra e dei poteri deviati.

Eugenio Scalfari, in un’intervista riportata su La Stampa, disse: “Il prefetto o è uno sciocco, che non capisce quanto accade, o un fazioso che non vuole capire. Milano merita un prefetto della Repubblica, non un portavoce della cosiddetta Maggioranza silenziosa, che poi non è altro che una querula minoranza” (la “Maggioranza silenziosa” era un movimento di destra).

Analogamente duro fu Paese sera, che, tracciando un profilo del prefetto Mazza, scrisse: “E’ sempre stato un funzionario con la miopia e i difetti di chi ha iniziato e rassodato la carriera sotto le ali del fascismo”.

Anche Panorama, in diversi articoli, attaccò il prefetto, e durante le manifestazioni e i cortei di estrema sinistra, uno degli slogan più usati divenne in quel periodo: “Mazza, ti impiccheremo in piazza”.

Una delle poche eccezioni, tra i giornalisti di area-sinistra, che invece difese il prefetto e accolse la teoria degli opposti estremismi, fu quella di Carlo Casalegno (che poi sarà ucciso dalle Br, nel 1977), che già nel maggio del 1971 scrisse su La Stampa un articolo intitolato: “W il prefetto”.

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Da parte mia valgono le stesse considerazioni sopra riportate per le “sedicenti” Brigate rosse, con in più il fatto che, trattandosi della piazza di Milano, dov’erano note le persecuzioni delle forze dell’ordine e della magistratura nei confronti della sinistra extraparlamentare, è tutto sommato comprensibile che la stampa stentasse a riconoscere una violenza di sinistra. Non appena scoppiarono le bombe del 12 dicembre, non dimentichiamo che la polizia fermò ben 84 persone appartenenti ad organizzazioni di sinistra e anarchiche, assolutamente estranee ai fatti, mentre non toccò gli estremisti di destra. Prima che si cominciasse ad investigare anche a destra, un innocente rimase in carcere per due anni e mezzo e un altro morì durante un interrogatorio in Questura. Tutto questo Brambilla non lo dice. E non dice nemmeno che nelle organizzazioni di sinistra vi erano diversi “provocatori” di destra, infiltrati proprio con lo scopo di fomentare scontri con le forze dell’ordine, secondo la tattica del cosiddetto “entrismo”.

Con queste precisazioni non voglio né negare né giustificare la violenza di sinistra, ma solo significare che se si dubitava della sua esistenza c’erano dei motivi e mi sembra corretto ricordarli.

Pinelli e Calabresi

La notte del 15 dicembre del 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, fermato tre giorni prima per la strage di piazza Fontana, precipitò da una finestra del quarto piano della Questura di Milano, durante un interrogatorio.

La stampa, ma anche un gran numero di intellettuali ritennero responsabile della morte dell’anarchico, la polizia e, in particolare, il commissario Luigi Calabresi, che aveva fermato e più volte interrogato Pinelli.

Qui, sotto accusa, nel libro di Brambilla, finiscono sia giornali di sinistra come L’Espresso, l’Unità, Lotta continua, l’Avanti! e Vie nuove, sia anche ben 800 intellettuali che sottoscrissero una specie di proclama pubblicato sull’Espresso il 13 giugno 1971, nel quale non soltanto si chiedeva giustizia sul caso Pinelli, ma si definiva Calabresi “responsabile della fine di Pinelli” e “commissario torturatore”. Le firme sono davvero eccellenti e provengono da tutti i settori della cultura italiana di quegli anni. Vi sono, tra i firmatari, i registi Fellini, Soldati, Zavattini, Comencini, Bertolucci, Pontecorvo, Bellocchio, i fratelli Taviani, la Cavani, Nanni Loy, Pasolini, Gregoretti, Folco Quilici…

Ma anche poeti come Giovanni Raboni e Giovanni Giudici; pittori come Guttuso, Cascella, Treccani e Carlo Levi; gli editori Laterza, Einaudi e Feltrinelli; gli storici Antonicelli e Spriano; i critici Argan, Dorfless e Fernanda Pivano; intellettuali e scrittori, tra i quali Umberto Eco, Primo Levi, Moravia e la Maraini; i filosofi Norberto Bobbio, Lucio Colletti e Lucio Villari e, naturalmente, un gran numero di giornalisti, quali Bocca, Mieli, Barbato, Colombo, Terzani, la Cederna…

Si scatenò, dunque, una campagna denigratoria contro il commissario Calabresi, che portò alla sua delegittimazione. Il 17 maggio 1972, il commissario, com’è noto, venne ucciso. Ventitré anni dopo, la magistratura condannò per l’omicidio i capi di Lotta continua.

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Anche qui, a mio modesto parere, occorrono delle precisazioni. Che la campagna di stampa denigratoria nei confronti del commissario Calabresi sia da condannare, sono assolutamente d’accordo. D’accordo anche sul fatto che gli intellettuali, per quanto siano stati sicuramente in buona fede, sbagliarono a firmare un documento che oltre a chiedere giustizia conteneva già una condanna del commissario. Mettere in croce una persona è sempre sbagliato, è una violenza, anche se quella persona è colpevole. Quel documento, a mio parere, si sarebbe dovuto limitare a chiedere giustizia: anche a mettere in dubbio e a contestare duramente le versioni fornite dalla Questura; ma non avrebbe dovuto nemmeno nominare il commissario Calabresi, non avrebbe dovuto toccare la persona.

Tuttavia non sono assolutamente d’accordo sul fatto che, secondo Brambilla, noi dovremmo credere alla tesi del “malore attivo”, per cui, a un certo punto, Pinelli, in preda a un raptus, si sarebbe lanciato dalla finestra, in presenza di sei funzionari che non sono riusciti a trattenerlo, e addirittura gridando: “E’ la fine dell’anarchia!”. Tutto ciò è assolutamente ridicolo, farsesco, direi. Nemmeno un bambino ci crederebbe: sembra quasi una scena fantozziana, manca solo il camion di letame o l’autobus che passa in quel momento di sotto…

Ci sono veramente troppe falle nelle diverse e contrastanti versioni fornite dalla Questura e nelle motivazioni del decreto che archiviò il “caso Pinelli”. Per Brambilla, invece, va tutto bene. Non una parola, si legge nel suo libro, sul fatto che Pinelli fosse stato trattenuto in Questura oltre il limite legale e che lo stessero interrogando già da 77 ore. Nessuna importanza si dà alle comprovate minacce che gli vennero fatte, ad esempio, di fargli perdere il posto di lavoro sapendo che aveva due bambine da mantenere, e alle violenze psicologiche ammesse dallo stesso Calabresi, che gli aveva fatto credere che Valpreda aveva confessato di essere l’autore della strage; nonché a tutte le altre contraddizioni e falle che sono ben state messe in luce da Camilla Cederna nel suo libro “Pinelli. Una finestra sulla strage” (si veda la discussione apposita, in questa stessa sezione).

Addirittura, Brambilla calca la mano sull’asserita amicizia fra Pinelli e Calabresi, cosa assolutamente falsa, buona soltanto per le fiction televisive di serie B. Sul caso Pinelli, Brambilla si preoccupa soltanto di dimostrare quanto faziosi furono la stampa e gli intellettuali e neppure un dubbio lo sfiora sull’estraneità ai fatti dei funzionari della Questura, mostrandosi in tal modo altrettanto fazioso, in maniera uguale e contraria a quella della stampa e degli intellettuali, proprio in perfetta aderenza a quella “teoria degli opposti estremismi” che gli piace tanto.

In definitiva, a mio parere, la stampa (soprattutto) e gli intellettuali (in misura minore) sbagliarono nel metodo troppo violento e denigratorio nei confronti della persona Luigi Calabresi, ma non sbagliarono né a chiedere giustizia né ad accusare la Questura. Che una persona venga fermata come indiziata di delitto e muoia durante un interrogatorio precipitando da una finestra, checché ne dica Brambilla, è un fatto abnorme, inaccettabile in uno Stato democratico, ed è per questo e soltanto per questo che anche gli intellettuali si mossero.

Il caso Feltrinelli

Il 15 marzo 1972, sotto un traliccio dell’alta tensione, a Segrate, nella periferia di Milano, venne rinvenuto un corpo dilaniato da un’esplosione. Due giorni più tardi si scoprì che quel corpo orrendamente mutilato era quello del famoso editore Giangiacomo Feltrinelli, un uomo vicino alla sinistra extraparlamentare, fondatore e finanziatore dei Gap, uno dei primi gruppi di estrema sinistra che teorizzò e praticò la lotta armata (si veda in “Cronaca”).

Si scatenò subito “un coro” giornalistico secondo cui Feltrinelli era stato assassinato dalla polizia o dai fascisti (che era in pratica la stessa cosa) e portato successivamente sul luogo del ritrovamento. Si “distinsero” soprattutto Paese sera, l’Unità, il Manifesto, il Corriere d’Informazione, L’Espresso, Panorama, sostenendo la tesi del “complotto di Stato”. Tra i giornali di sinistra, solo Potere Operaio rivendicò la morte di Feltrinelli come quella di un “rivoluzionario caduto nella guerra di liberazione dallo sfruttamento”.

Anche in questo caso venne steso un documento firmato da numerosi giornalisti, tra i quali Camilla Cederna e Eugenio Scalfari, e diversi intellettuali, in cui si sosteneva la tesi dell’assassinio di Feltrinelli.

Montanelli, sul Corriere della Sera, scrisse: “…Non abbiamo quindi nulla da obiettare all’ipotesi, da varie parti avanzata, di una messa in scena abilmente congegnata da provocatori di estrazione fascista, se non addirittura della polizia, o almeno con la sua complicità, per discreditare certo sovversivismo di sinistra di cui Feltrinelli era indubbiamente un esponente, e sollevare contro di esso la pubblica indignazione. Cioè non avremmo nulla da obiettare se questa ipotesi fosse adombrata appunto come ipotesi. Perché no? Dato il momento che attraversiamo, non possiamo, e quindi non dobbiamo, a priori rifiutarla. Ciò che rifiutiamo è il tentativo di spacciarla come una certezza già acquisita, e acquisita nel momento stesso in cui la notizia veniva diffusa senza corredo di particolari che potessero costituire non dico prove, ma nemmeno indizi…”.

Anche dopo che l’autopsia rivelò che Feltrinelli era morto a causa dell’esplosione e non prima, si continuò a sostenere la tesi del delitto politico: l’editore poteva essere stato narcotizzato, trasportato nei pressi del traliccio e fatto esplodere per inscenare un incidente…

Nel 1979, durante il processo al nucleo “storico” delle Brigate rosse, gli imputati brigatisti lessero in aula un comunicato in cui affermavano che “Osvaldo” (nome di battaglia di Feltrinelli) non era una vittima, ma “un rivoluzionario caduto combattendo”. In pratica, mentre era “impegnato in un’operazione di sabotaggio dei tralicci dell’alta tensione – si legge ancora nel comunicato – che doveva provocare un black-out in una vasta zona di Milano, al fine di garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi”, l’ordigno che aveva con sé esplose “per un errore tecnico da lui stesso commesso”.

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Anche nel caso Feltrinelli, a mio avviso, giocò fortemente il sentimento di sfiducia nei confronti della polizia e della magistratura milanese, sulle quali era ancora ben visibile l’ombra di piazza Fontana e della morte di Pinelli. Basti pensare che Montanelli stesso non se la sentì di scartare a priori la tesi del “complotto di Stato”. Ma certo gli altri giornalisti, se proprio volevano seguire la pista del complotto, avrebbero dovuto raccogliere elementi, fare delle inchieste, prima di scrivere articoli dando già per scontate le conclusioni. Su questo non posso che essere d’accordo con Montanelli e Brambilla, tanto più che il caso Feltrinelli, a mio parere, e al contrario di quello di Pinelli, presentava fin da subito pochi o quasi nessun lato oscuro: qui veramente si scriveva soltanto in preda all’onda emotiva. E questo è certamente sbagliato: un giornalista, quando scrive, non deve lasciarsi trasportare dall’emozione.

Ramelli e Basili

Il libro di Brambilla prosegue mettendo a confronto i casi di due ragazzi, entrambi appena diciannovenni, che furono nello stesso torno di tempo assassinati da estremisti politici: l’uno da estremisti di sinistra e l’altro da estremisti di destra. Le vicende, benché simili o pressoché uguali per l’assurda violenza che le contrassegnò, furono trattate diversamente dalla stampa.

Sergio Ramelli era un simpatizzante di destra, iscritto al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. Un fascista, o “neofascista”, che però non risultava aver mai commesso violenze. Il 13 marzo 1975 fu aggredito a Milano, sotto casa, da un commando di Avanguardia Operaia, composto per lo più da studenti della facoltà di Medicina, che lo massacrarono a sprangate, causandogli gravissime lesioni al capo, in seguito alle quali il ragazzo morì in ospedale dopo ben 47 giorni di agonia, il 29 aprile.

Alberto Basili era invece un giovane simpatizzante di sinistra, anche lui diciannovenne, che, sempre a Milano, nella zona di piazza San Babila, la sera del 25 maggio 1975, venne aggredito da cinque neofascisti, accoltellato a morte davanti alla sua fidanzata. Gli assassini nemmeno lo conoscevano, ma lo aggredirono solo perché era vestito “come uno di sinistra” e forse anche perché (ma questa circostanza non è stata accertata dai giudici) stava strappando da un muro un adesivo elettorale del Msi.

I giornali diedero ampio risalto all’omicidio di Basili. Sul Corriere della Sera del 29 maggio 1975, in prima pagina, c’erano un articolo a sei colonne e un corsivo firmato dal direttore Piero Ottone, intitolato “L’ideologia della violenza”. Anche La Stampa dedicò la prima pagina all’omicidio del giovane di sinistra e pubblicò un articolo di fondo firmato da Andrea Barbato.

Quando Ramelli fu aggredito e ferito gravemente, invece, sul Corriere della Sera venne pubblicato un articolo non in prima pagina, ma nello spazio della cronaca milanese, dal titolo: “Nuovo episodio di violenza politica in via Amadeo-In gravissime condizioni uno studente aggredito da elementi dell’ultrasinistra”.

In un articolo dell’Unità apparso sempre in quei giorni, gli aggressori di Ramelli vennero definiti “criminali e vigliacchi, tetri cultori di una violenza ottusa che porta sistematicamente acqua al mulino della reazione”. E per questo, proseguiva l’articolo, “il movimento dei lavoratori e tutti i veri antifascisti hanno in loro dei nemici giurati, da stanare e da spazzare via come un’ingiuria vergognosa e intollerabile alla coscienza democratica della città”.

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Onestamente: non voglio mettere in dubbio che la stampa abbia “privilegiato” l’omicidio di Basili rispetto a quello di Ramelli. Non ho difficoltà a crederci.

Ma, altrettanto onestamente, devo dire che su questo punto il libro di Brambilla non mi ha aiutato molto, visto che egli cita soltanto quei due articoli, uno del Corriere e uno dell’Unità: piuttosto striminziti, è indubbio, rispetto a quelli dedicati a Basili, ma entrambi scritti, a dire il vero, quando Ramelli non era ancora deceduto, mentre Basili era morto subito, in seguito alle coltellate ricevute. Non so se, dal punto di vista della cronaca giornalistica, meritino uguale spazio la notizia di un morto e quella di un ferito, ancorché gravemente.

Peraltro, nell’articolo dell’Unità, dove si legge dei criminali “che portano acqua al mulino della reazione”, contrapponendoli agli “autentici antifascisti”, non mi pare che si neghi che quei criminali siano di sinistra, solo che si vuole sottolineare che essi, con il vero “antifascismo”, non c’entrano nulla. Ma ciò non mi sembra così tremendo: è quello che penso anch’io oggi. Aggredire un ragazzo da solo, in cinque, in sei o in dieci, e prenderlo a sprangate, insomma, che cos’ha di “antifascista?”. Non capisco cosa vorrebbe Brambilla, forse che si dicesse che l’antifascismo autentico è violento come lo stesso fascismo? Forse l’Unità avrebbe dovuto scrivere che gli assassini erano antifascisti veri?

Del resto anche Saragat, durante il sequestro Moro, paragonò le Brigate rosse ai nazisti. Anche Lama e Pertini verso la fine degli anni Settanta chiamavano con disprezzo le Brigate rosse, “Brigate nere”. Ma ormai non lo facevano più perché pensavano che i brigatisti fossero dei provocatori fascisti vestiti di rosso, ma piuttosto per sottolineare che la loro violenza, per quanto provenisse da sinistra, non c’entrava nulla con la vera sinistra antifascista che aveva liberato l’Italia dal nazifascismo. Mi sembra un discorso assolutamente condivisibile, su un piano storico prima ancora che politico.

Piuttosto sarebbe stato interessante che Brambilla avesse citato anche gli articoli pubblicati dopo la morte di Ramelli, per fare un confronto più significativo con quelli pubblicati per l’omicidio di Basili. Egli, invece, ne cita soltanto uno: quello apparso su La Stampa a firma di Arturo Carlo Jemolo e intitolato “L’omicidio non ha colore”. Articolo in cui si diceva chiaramente che Ramelli era rimasto vittima della violenza di sinistra, ma che, secondo quanto scritto da Brambilla – e non documentato – rimase “una voce nel deserto”.

Il caso Pasolini

Sul cruento omicidio di Pier Paolo Pasolini abbiamo già molto discusso nella sezione “Cronaca”. Anche su questo caso – per molti, tra cui il sottoscritto, ancora aperto -Brambilla critica la stampa di sinistra, che non credette alla versione fornita da Pelosi, secondo cui a uccidere l’intellettuale era stato lui solo, per difendersi da un’aggressione a sfondo sessuale.

I giornali che dubitarono furono soprattutto il Manifesto, ma anche il Corriere della Sera, Paese sera e l’Unità. Anche la Fallaci, su L’Europeo, scrisse un articolo in cui, sebbene non parlava di delitto politico, metteva in forte dubbio il racconto di Pelosi e sosteneva che il massacro non aveva potuto compierlo lui da solo.

Uniche voci che si allinearono alla versione del “ragazzo di vita” Pino Pelosi furono quelle di Enzo Biagi sul Corriere e di Montanelli sul Giornale.

Molte personalità del mondo della cultura scrissero, o affermarono nelle interviste, che occorreva fare giustizia e mettere in luce la verità; e questo, secondo Brambilla, a torto, perché il complotto per lui era ed è inesistente.

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Qui dissento nella maniera più totale, come ho già avuto modo di scrivere. Su questa oscura vicenda, il libro di Brambilla tocca anzi, a mio avviso, il suo punto più basso. L’assunto secondo cui la stampa allineata a sinistra travisasse i fatti e vedesse complotti anche dove non c’erano, questa volta non coglie nel segno. Quello che può essere vero per Feltrinelli non vale anche per il caso Pasolini, dove la versione del depravato massacrato da un ragazzo di vita perché è “andato a cercarsela”, per quanto possa fare comodo al potere e alla destra, fa acqua da tutte le parti. Non sappiamo ancora la verità su chi ha ammazzato Pasolini e perché. E il libro di Brambilla di certo non ci aiuta a scoprirla.

Il caso Graneris

Anche su questo efferato delitto è aperta una discussione nella sezione “Cronaca”. Il 13 novembre 1975, a Vercelli, Guido Baldini, con la complicità della sua fidanzata, Doretta Graneris, sterminò l’intera famiglia di Doretta: il padre, la madre, il fratello di soli tredici anni e i due nonni.

Fu un fatto di cronaca nera, un delitto a scopo di lucro, ma alcuni giornali avanzarono l’ipotesi che si trattasse di una strage a sfondo politico, per il motivo che i Graneris erano una famiglia di antifascisti: in particolare, il padre, Sergio Graneris, era stato un partigiano della brigata Garibaldi e, nel 1945, aveva fatto parte di un plotone d’esecuzione che aveva giustiziato alcuni fascisti del vercellese. Mentre il fidanzato di Doretta, Guido Baldini, era un giovane simpatizzante di estrema destra, con la passione per le armi.

Sia il Corriere che La Stampa e Paese sera adombrarono l’ipotesi di una vendetta a sfondo politico. Questa pista poi non ebbe alcun seguito perché non furono trovati dei riscontri.

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Francamente sulla “strage di Vercelli” mi pare che Brambilla esageri. Dagli stessi articoli che egli riporta, non mi pare che sia stato montato un caso. L’ipotesi della strage politica venne presto abbandonata dagli stessi giornali che l’avevano proposta e non si continuò a sostenerla anche dopo il pronunciamento della magistratura, come si era fatto per il caso Feltrinelli.

Ad ogni modo, visti i legami del Baldini con i gruppi di estrema destra e visti i trascorsi nella Resistenza del Graneris, e dati soprattutto i tempi che correvano, non trovo così fuorviante che qualche giornalista avanzasse l’ipotesi di una vendetta politica, in un momento in cui ancora non si sapeva nulla e, conseguentemente, nulla si poteva escludere. Però, a onor del vero, qui i giornalisti non si comportarono come nel caso Feltrinelli, non diedero già per scontata la conclusione della strage a sfondo politico.

Il ferimento di Montanelli

Sul ferimento di Indro Montanelli da parte delle Brigate rosse, avvenuto a Milano il 2 giugno 1977, il libro di Brambilla accusa il Corriere di Piero Ottone di non aver riportato nel titolo dell’articolo di apertura il nome del giornalista ferito. L’articolo, infatti, era intitolato: “I giornalisti nuovo bersaglio della violenza- Le Brigate rosse rivendicano gli attentati”. Il nome di Montanelli compariva solo nella seconda riga del sommario e dopo quello di Vittorio Bruno, giornalista del Secolo XIX, anche lui vittima di un attentato a Genova.

Nell’articolo di fondo, poi, si esprimeva solidarietà a Montanelli, “anche se egli rappresenta e difende posizioni nelle quali non ci riconosciamo”.

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Non posso che essere d’accordo sul fatto che Il Corriere, ma anche La Stampa, allora diretta da Arrigo Levi (sebbene Brambilla non la citi), si comportarono malissimo sia nei confronti di Montanelli sia nei confronti dei lettori, perché entrambi questi importantissimi giornali, tra i più letti in Italia, “glissarono” sul nome così illustre del giornalista ferito e quindi sminuirono la notizia. Il commento di Piero Ottone, poi, in cui si esprimeva solidarietà ma al tempo stesso si precisava che Montanelli difendeva posizioni diverse da quelle del Corriere, fu completamente gratuito e fuori luogo: davvero un esempio di basso giornalismo. Vien quasi da pensare che fosse stato scritto per paura, per far sapere alle Brigate rosse che i giornalisti del Corriere e il suo direttore non meritavano di essere presi a pistolettate.

Almeno per quanto riguarda il Corriere, tuttavia, credo che abbiano giocato in qualche misura anche i risentimenti personali, i litigi, che come sappiamo portarono al “divorzio” di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, al servizio del quale egli aveva lavorato per 37 anni. Del resto fu lo stesso Montanelli a dire, in un’intervista del 1985, che all’epoca del suo ferimento “soltanto i miei vecchi amici-nemici Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca ebbero il coraggio di manifestarmi la loro solidarietà”. Forse, allora, il modo in cui fu trattato Montanelli dal Corriere, all’indomani del suo ferimento, non è proprio uno degli esempi più calzanti per dimostrare che i giornalisti italiani negli anni Settanta erano schierati a sinistra e scrivevano con l’Eskimo addosso. Forse, appunto, si trattò maggiormente di una questione di ripicca personale, se anche due dei più importanti giornalisti che scrivevano con l’Eskimo, come Scalfari e Bocca, manifestarono senza timore la loro solidarietà al grande Indro.

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L’Eskimo in redazione” è un libro interessante, che ho letto e consultato più volte e che condivido in larga parte. Per quanto, leggendolo, abbia dovuto emendarlo da una certa faziosità che lo pervade dalla prima all’ultima pagina e dal solito risentimento che anima gli intellettuali di destra nei confronti della sinistra, lo considero un’importante testimonianza del fatto che la stampa (parlo di quella indipendente e apartitica) fosse indubbiamente spostata e appiattita a sinistra per gran parte degli anni Settanta. Va detto, però, a mio parere, che in quello stesso periodo, specialmente a Milano, la polizia e la magistratura erano spostate (o meglio “deviate”) a destra. In altri termini, se la stampa e la cultura erano di sinistra, il potere era schierato a destra. Se detta circostanza non vale a giustificare la scarsa obiettività dimostrata in certi casi dai giornalisti e dagli intellettuali in genere, essa costituisce comunque un elemento indispensabile per fare chiarezza sul quadro politico di quegli anni e per capire che se si scriveva in un certo modo, cioè, diciamo pure, “con l’Eskimo” più che con la penna, c’erano dei motivi.

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