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Pinelli. Una finestra sulla strage

Pinelli. Una finestra sulla strage

Tutto ha inizio un venerdì pomeriggio a Milano. Nelle vie del centro ci sono le luminarie di Natale: la giornata è grigia, c’è poca luce, l’asfalto è bagnato e una leggera nebbiolina è sospesa nell’aria. E’ giorno di mercato, i negozi hanno riaperto per il turno pomeridiano, mentre le banche stanno per chiudere. In piazza Fontana, a pochi passi dal Teatro alla Scala, gli ultimi clienti sono in fila davanti agli sportelli della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Sono le 16 e 37. All’improvviso scoppia una bomba. La deflagrazione è terribile (7 chili di tritolo). I testimoni raccontano di una scena apocalittica subito dopo l’esplosione: cadaveri a terra nel salone, corpi orrendamente mutilati in mezzo al fumo e alla polvere dei calcinacci, un signore rimasto senza le gambe che chiede aiuto, altre persone anziane distese a terra, ferite, che invocano la madre…

Era il 12 dicembre del 1969. Quella bomba cambiò per sempre la storia della nostra Repubblica. Era stato un attentato, ma chi aveva messo quelle bombe (oltre che a Milano, contemporaneamente anche a Roma per fortuna senza vittime, ma soltanto con feriti)? Mentre tutto il Paese era ancora scosso e indignato, le indagini della polizia e della magistratura inquirente si indirizzarono immediatamente verso gli ambienti anarchici e dell’estrema Sinistra milanesi. Nei quattro giorni successivi agli attentati, ben 84 appartenenti ai circoli anarchici e a gruppi della Sinistra extraparlamentare vennero fermati. Tra questi vi era una figura di spicco dell’attivismo anarchico milanese: Giuseppe Pinelli, 41 anni, ferroviere. Quest’uomo (che i fatti poi dimostreranno essere completamente avulso dalla strage, così come tutti gli anarchici e i militanti dell’estrema Sinistra) venne convocato in Questura la sera stessa del 12 dicembre e trattenuto dalla polizia politica, che lo interroga ripetutamente…

La notte tra il 15 e il 16 dicembre, durante l’ennesimo interrogatorio, Pinelli precipita da una stanza del quarto piano della Questura, in via Fatebenefratelli. Trasportato all’ospedale in gravissime condizioni, muore poco dopo. La versione della polizia (benché modificata e “precisata” più volte) è e rimarrà sempre quella del suicidio dovuto ad un malore e ad un improvviso “raptus” del fermato. Ma ci sono molti lati oscuri in questa vicenda tragica, che viene ad innestarsi nella lugubre cornice della strage di piazza Fontana. Non solo negli ambienti di Sinistra, ma in vasti settori di tutta l’opinione pubblica si fa difficoltà a credere al suicidio. Il “popolo italiano” (almeno tutti quelli che credono nella verità e nella giustizia, a prescindere dal colore politico) ha forti riserve sulla versione ufficiale e chiede di sapere cosa sia veramente successo alla Questura di Milano, la sera del 15 dicembre. Si apre un’inchiesta giudiziaria che, nonostante tutti i dubbi, confermerà la tesi del suicidio di Pinelli.

Nell’ottobre del 1971, a quasi due anni di distanza da questi tragici fatti, la giornalista, cronista dell’ “Espresso” e scrittrice Camilla Cederna pubblica un coraggioso libro sul “caso Pinelli”, che rimarrà memorabile: “Pinelli, una finestra sulla strage”, ed. Feltrinelli.

Più che un libro-inchiesta, si tratta di un formidabile “j’accuse” della giornalista milanese. La Cederna, facendosi portavoce di tante persone che chiedono di sapere la verità (prima fra tutti la vedova di Pinelli), punta il dito (e soprattutto la sua penna) contro i poliziotti, i carabinieri e i funzionari che hanno interrogato Pinelli e hanno fornito versioni incerte, contraddittorie e traballanti sui fatti del 15 dicembre, e sui magistrati che hanno svolto le inchieste in maniera estremamente lacunosa.

Ci sono molte “falle” nella versione ufficiale del Pinelli-suicida. Tanto per cominciare, il fermo di polizia, iniziato già il giorno 12 dicembre, si è protratto oltre le 48 ore consentite dalla legge. Pinelli, quindi, era stato trattenuto in Questura illegalmente. Vi sono poi versioni contrastanti sull’ora esatta in cui è avvenuto il “volo” di Pinelli: l’ora, infatti, nelle successive versioni fornite dalla Questura, viene spostata sempre più avanti: dalle 23.50 della prima versione si arriva alle 23.58 dell’ultima e definitiva; c’è il sospetto che dietro a questi “spostamenti del tempo” ci sia la volontà di nascondere il fatto che l’ambulanza era stata chiamata prima che Pinelli precipitasse dalla finestra: che egli dunque fosse già gravemente ferito e in stato incosciente prima di precipitare…

Come mai, poi, il corpo non ha seguito una traiettoria curva, come sempre succede quando una persona si getta nel vuoto dandosi uno slancio, mentre risulta, invece, che il Pinelli sia caduto dritto, strisciando contro la parete e facendo tre tonfi sordi: sul primo cornicione, sul secondo e infine schiantandosi a terra? Per quale motivo il corpo non presenta ferite sulle mani, caratteristica, questa, sempre ricorrente in chi si butta dall’alto perché inconsciamente cerca di aggrapparsi a qualsiasi cosa? Come mai i testimoni che si trovavano per strada, vicino alla finestra della Questura, riferiscono di non aver sentito nemmeno un grido provenire da Pinelli mentre cadeva nel vuoto? Perché ai periti di parte non è stato consentito, come normalmente avviene, di assistere all’autopsia del medico legale della Procura?

Anche le modalità con le quali si sarebbe svolto l’interrogatorio, nel corso del quale Pinelli, in preda ad un “raptus” improvviso, si sarebbe lanciato nel vuoto, lasciano molto perplessi. E’ possibile che in una stanza dallo spazio esiguo (di metri 4 X 3,40) ben sei uomini presenti (tra poliziotti, carabinieri e funzionari) non riescano a trattenere un individuo che cerca di lanciarsi da una finestra? La finestra, poi, era aperta o era chiusa al momento del “raptus”? E’ stato addirittura lo stesso Pinelli a spalancarla durante il suo improvviso “raptus” oppure essa era già aperta? (Su questa circostanza la Questura ha cambiato versione innumerevoli volte). Perché non esistono i verbali dell’ultimo interrogatorio? Perché se non esisteva alcun indizio contro Pinelli, come riferito dalla Questura, lo si è ricattato dicendogli che nell’altra stanza l’anarchico Valpreda aveva confessato? (Secondo la versione della Questura, Pinelli si sarebbe lanciato dalla finestra dopo essersi “sbiancato” in volto e aver gridato “E’ la fine dell’anarchia!”: questo subito dopo che gli era stata detta la menzogna che Pietro Valpreda, un altro anarchico fermato, aveva confessato di essere l’autore della strage di piazza Fontana).

Questi sono i principali interrogativi ai quali la Cederna cerca una risposta, seguendo come cronista i successivi processi collegati alla morte di Pinelli e commentando il decreto di archiviazione che manda assolti i poliziotti, i carabinieri e i funzionari della Questura da ogni responsabilità per la morte dell’anarchico. La sua penna, oltre a mettere in luce le contraddizioni e i punti oscuri, descrive implacabilmente i personaggi meschini di questa vicenda, rappresentandola come una vera e propria farsa i cui attori sono uomini appartenenti alle Istituzioni che dovrebbero tutelare l’ordine e la legalità…

Al centro di questa farsa (una sorta di “commedia degli equivoci”) recitata da persone nemiche della verità e della giustizia, vi è una vittima innocente: un uomo onesto, mite, generoso e altruista, che credeva fermamente negli ideali di pace, uguaglianza e fratellanza fra tutti gli esseri umani.

Il libro-denuncia di Camilla Cederna, letto anche a distanza di più di quarant’anni, mantiene intatta la sua incredibile incisività e ti fa provare ancora un senso di impotenza, di rabbia e di profonda ingiustizia di fronte a questa triste vicenda, che insieme a quella ancora più tragica di piazza Fontana segna l’inizio degli anni Settanta.

Ecco uno stralcio molto significativo delle parole, tratte dall’Antologia di Spoon River, che Licia Pinelli, vedova del ferroviere anarchico, ha fatto scolpire sulla lapide del marito:

Vidi una donna bellissima,

con gli occhi bendati,

ritta sui gradini di un tempio marmoreo.

Una gran folla le passava dinanzi,

alzando al suo volo un volto implorante,

nella sinistra impugnava una spada.

Brandiva questa spada,

colpendo ora un bimbo, ora un operaio,

ora una donna che tentava di ritirarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia:

nella bilancia venivan gettate delle monete d’oro

da coloro che schivavano i colpi di spada”.

Ed ecco infine come ha rappresentato la tragedia di Pinelli, l’artista Enrico Baj in una sua opera-installazione del 1972, intitolata “I funerali dell’anarchico Pinelli”, e diventata una delle (tante) icone del decennio di terrore e sangue che seguì ai tragici avvenimenti del dicembre del 1969.

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