Me la ricordo come un colpo al cuore, un petardo che si stagliava rombante nell’aria, accecando tutto di fumo e nebbia, quella telefonata che mi arrivò quel pomeriggio del 17 aprile 1979. Ero a casa, quel giorno non ero andata in redazione a “Olimpico” di Mario Gismondi dove sfornavo articoli su articoli, facendo un po’ il “capetto” e tirando su una marea di giovanissimi aspiranti al trionfo della carta stampata, io una delle primissime giornaliste donne a disquisire di football ed andare a Spqr, emittente privata romana a intervistare i campioni negli spogliatoi dopo la partita. Una mia giovane collega mi diceva che era appena giunta un’Ansa con la notizia di un brutto incidente in Liguria. Gigi Radice era in fin di vita e Paolo Barison era rimasto ucciso, carbonizzato nell’impatto di un Tir sulla 130 color argento dove viaggiavano. Volevo intervistarlo il sabato seguente, quando il Toro sarebbe venuto a Roma per il match con la Lazio.
E soprattutto, quel Radice era una specie di mito, per me. Dal giorno che l’avevo incontrato, un po’ titubante nelle mie prime interviste da collaboratrice per il Corsport, nella hall dell’Holiday Inn. C’eravamo flashati al volo, lui con il fido Giorgio Ferrini, combattente fin troppo focoso ai tempi del mondiale del Cile in maglia azzurra e presto vittima di un destino fatale, scomparso giovane dopo mille battaglie in maglia granata. Quel giorno dovevo intervistare Pulici e Graziani gemelli del gol eppoi ingaggiai il tiro al bersaglio a colpi di domande anche con lui per scoprire il suo volto umano da testardo Capricorno alle prese con la sua annata gloriosa che riportò lo scudetto a Torino granata dopo 27 anni dal rogo di Superga. Riuscì a cavarsela, in quell’aprile 79, Gigi Radice detto “il tedesco”, il duro, l’uomo dagli occhi di ghiaccio, Gigi il bello, Radix, il sergente di ferro. La domenica in occasione di Lazio-Torino nella curva biancazzurra campeggiava un grosso commovente striscione “Dai Radice, vinci lo scudetto della vita”. Riuscì a cavarsela, uscì dalla Clinica Fornaca, si allenò in palestra e volò con la squadra a Chamonix per preparare il nuovo torneo. Qualcuno giurò che dopo quell’impatto crudele che l’aveva sospeso fra vita e morte, non era stato più lui. Ma gli avvoltoi volano sempre bassi nel mondo del football ed anche Gigi il tedesco fu vittima delle chiacchiere. Forse qualcosa nel giocattolo Toro s’era incrinato ma nessuno poteva negare che nei cinque anni sulla panca granata, Gigi aveva segnato un’epoca felice nella storia del Toro.
Era arrivato nel ’75, presentato da Pianelli alla piazza dei tifosi durante un match di Coppitalia. Qualcuno nicchiava, gli sospettava troppo inesperienza. Ma Gigi era rimasto contagiato dal bel calcio avveniristico dell’Olanda di Cruyff al mondiale 74. E riuscì a regalare al Toro il gioco a tuttocampo, insegnare il pressing asfissiante, il raddoppio di marcatura, il trucco dell’offside. Trasformò Pat Sala che veniva dalla C nel Monza in un mediano vibrante, stantuffo continuo fra difesa e attacco. Spostò Claudio Sala che da Fabbri era impiegato da centravanti sulla fascia, libero di svariare e crossare, per rifornire di palloni da gol Graziani e Pulici che avevano sempre fame di gol. Riuscì a far rendere al massimo Eraldo Pecci, scanzonato regista romagnolo che disegnava geometrie vincenti e Zaccarelli detto “Zac” incalzava e indovinava spesso bordate micidiali. In difesa s’ingegnava da libero Vittorio Caporale ex del Bologna e spingeva sulla fascia Roberto Salvadori detto “Faina” mentre Santin e Mozzini vigilavano in difesa e in porta “Giaguaro” Castellini usciva da autentico kamikaze e volava fra i pali. Il giorno dello scudetto, i giocatori portarono in trionfo Radice. Lui ostentava un mezzo sorriso, non tradiva l’emozione. Lui fulminava ancora Mozzini coi suoi occhi di ghiaccio perché era inciampato in un autogol togliendo al Toro la soddisfazione di chiudere il match con una nuova vittoria, con la coscienza a posto, degno della passerella finale. Il Toro del ’75-76 fu un’autentica sorpresa e dimostrò di avere il marchio doc di quel brianzolo biondo che s’era tolto ben pochi capricci da giocatore. Era arrivato al Milan con la fissa di giocare in mediana ma Rocco ne aveva fatto un terzino d’attacco. Uno di quelli che scendono sull’out e crossano pulito, uno di quelli che vendono l’anima in campo. Era anche arrivato in azzurro e s’era fatto la trasferta in Cile nel ’62 evitandosi il match coi padroni di casa dove Lionello Sanchez dispensò pugni ai nostri, Maschio e Ferrini persero la testa facendosi espellere e il sudamericano Jorge Toro ci mise in ginocchio guadagnandosi una chiamata in un nostro club. Gigi aveva giocato solo con la Germania e nel match finale, ormai inutile, con la Svizzera. Era tornato in Italia imbattuto. Pareva lanciato ad una brillante carriera. Poi il 3 marzo del ’63 in un takle col sampdoriano Cucchiaroni il ginocchio gli aveva fatto crak e per Gigi era iniziato il grande calvario. Aveva smesso col calcio a trent’anni, convinto di lasciare l’ambiente per fare l’assicuratore. Ma poi il richiamo era stato forte, il Monza aveva chiesto di lui come coach e da lì a riprendere il discorso coi prati verdi era stato un soffio. E così, via libera al Gigi trainer, con la promozione del Monza dalla C alla B, poi il Treviso e il Cesena da far viaggiare verso la A ed ancora la Fiorentina dove c’era un Antognoni da portare all’exploit a costo di demolire un Picchio De Sisti fino a quel momento primattore in quella zona del campo. Gigi ha sempre combattuto le “primedonne”. L’avrebbe fatto anche in seguito, scontrandosi con gente come “Dustin” Antonelli ed il genietto Evaristo Beccalossi, nelle sue parentesi sulle due sponde del Duomo negli anni 80. Non avrebbe risparmiato nessuno perché il suo vangelo predicava la forza del collettivo. E “collettivo” il suo Toro fu sempre. Da quel primo campionato vincente che portò al tripudio una folla di appassionati che attendeva quel giorno da troppo tempo ed era cresciuta col mito dei Mazzola e Loik spariti nel boato dell’aereo sulla Basilica di Superga.
Non c’era riuscito Giagnoni che coi tifosi aveva un feeling particolare, non c’era riuscito Mondino Fabbri, né Cadè, né Santos, né Rocco. A lui l’impresa riuscì e l’anno dopo, nel 76-77 fu ancora gran bel football che trascinò allo stadio ogni domenica che c’era il Toro anche il rivale per eccellenza Gianni Agnelli, esteta del football, al di là di ogni fede bianconera consolidata. Il Toro finì secondo alle spalle dalla Juve, cinquanta punti contro cinquantuno giocando anche un football migliore dell’anno dello scudetto. Era l’autunno 75 quando iniziò l’avventura di Gigi Radice in panca granata. Nell’aria risuonavano le note di “Amore grande, amore libero” del Guardiano del Faro, di “Tornerò” dei Santo California, di “Sabato pomeriggio” di Baglioni, di “Buonasera dottore” della Mori. Sui grandi schermi impazzava “Profondo rosso” di Dario Argento con relativa colonna sonora curata dai Goblin. A settembre veniva catturata a San Francisco Patricia Hearst, l’ereditiera americana che era stata rapita dall’esercito di liberazione simbionese sposandone poi la causa. Il 22 settembre il presidente Usa Gerald Ford era rimasto vittima di un nuovo attentato, fortunatamente finito bene.. Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, i tre giovani romani di buona famiglia erano stati protagonisti dell’esecrabile strage del Circeo ai danni di Rosaria Lopex e Donatella Colasanti che s’era salvata fingendosi morta. Il Nobel per la pace era andato a Sacharov e e quello per la letteratura a Eugenio Montale. Niki Lauda era diventato campione del mondo di Formula Uno. A novembre, il regista, poeta e libero pensatore Pierpaolo Pasolini che intuì per primo il divario che stava assottigliandosi fra menti di destra e sinistra, fu trovato ucciso alla periferia di Ostia, vittima del diciassettenne reo confesso Pino Pelosi, ragazzo di borgata di quelli che lui celebrava nei suoi romanzi e film. Durò cinque anni l’amore fra Gigi e il team granata. Poi l’opinione pubblica fu sobillata da certa stampa e il mito Radice s’incrinò. Finirono per sostituirlo con Ercole Rabitti che fino a quell’attimo s’era sempre occupato dei giovani. Sarebbe tornato al Toro nell’84 dopo aver guidato il Bologna dei -5 della penalizzazione per il calcioscommesse fino a un brillantissimo ottavo posto, spedendo Dossena in nazionale nel ruolo di regista che gli aveva inventato lui. E si tolse anche il gusto di battere proprio il Toro al Comunale col suo Bologna. Era tosto, il Gigi. Di lui se ne dicevano tante. S’era fatto un fama di rubacuori. Nel ’75 un sondaggio di un periodico l’aveva eletto a furor di popolo femminile “l’uomo più sexy del calcio italiano”, anche più bello di Gigi Riva. Quando alla Fiorentina dopo un bel campionato nel 73-74 decisero di mettergli Rocco come direttore tecnico costringendolo alle dimissioni, girò la voce che tutto fosse colpa di un suo flirt con la figlia del presidente Ugolini che poi andò in sposa a Mauro Della Martira. Il bis ci fu vent’anni dopo quando Gigi tornò a Firenze e con Vittorio Cecchi Gori furono fuochi d’artificio e nessuno potè impedire ai soliti chiacchieroni di vociferare che col suo esonero c’entrasse la signora Rita, non insensibile al fascino di Radix. Insomma, una carriera carica di effetti speciali anche al di fuori dei campi di gioco.
Oggi Gigi lotta contro un grande nemico, l’alzheimer, e sua moglie Nerina non si dà pace che il suo uomo abbia perso la memoria di tanti momenti magici, oltre a quelli difficili e non sopporta l’idea che in tanti, fra gli addetti ai lavori del calcio, tifosi compresi, abbiano dimenticato quanto Gigi abbia dato al mondo del football.
Ma nessuno può negare che negli anni 70 Gigi Radice si è ritagliato un suo prezioso spazio, tecnico intelligente e versatile, brillante ed aperto alle innovazioni che giungevano dall’estero. Un sergente di ferro pieno d’umanità che voleva gli uomini al servizio del collettivo e non guardava in faccia nessuno quando c’era da sacrificarsi il nome del pianeta football. Il Torino ancora sta cercando un tecnico che sappia ricalcarne le gesta.
Gigi Radice, l’uomo dagli occhi di ghiaccio
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