C’erano una volta due regine.
Due regine vestite di bianco che, un sabato sera di marzo, comparvero assieme sull’allora Programma Nazionale.
Correva l’anno 1974 e l’Italia viveva uno dei suoi tanti periodi tormentati. L’estate precedente c’era stata l’epidemia di colera, poi, a dicembre, alle difficoltà causate dall’austerity si era aggiunto il primo attacco palestinese sul nostro suolo, all’aeroporto di Fiumicino. Il terrorismo rosso e quello nero mietevano giovani vittime, le BR stavano per compiere il salto di qualità col rapimento del giudice Sossi, di lì a poco Piazza della Loggia e l’Italicus ci avrebbero detto che la strategia della tensione era lungi dall’esser finita.
Ma quel sabato 16 marzo, sotto la guida geniale di Antonello Falqui, Mina e Raffaella Carrà diedero il via a un sogno chiamato “Milleluci”: otto serate che incollarono alla tv una media di 24 milioni di spettatori a puntata, uno show che lo stesso regista romano, anche suo autore insieme a Roberto Lerici, considera la sua miglior creatura, con due straordinarie protagoniste pronte a superarsi a vicenda in bravura accompagnate da ospiti eccezionali.
Semplice lo schema del programma: ogni puntata doveva far rivivere di volta in volta un aspetto del mondo dello spettacolo grazie all’intervento di personaggi che quel particolare ambito rappresentavano al meglio.
Ad aprire il varietà, dopo la sigla “Din Don Dan” ballata e cantata dalla Carrà, era Mina che presentava un suo brano tra i più recenti. Quindi, assieme, le due davano il via al tourbillon di ospiti, balletti, canzoni, scenette. E restavano sempre e comunque in primo piano, impegnandosi anche come attrici, nonostante i loro rispettivi pezzi forti rimanessero il balletto per la signorina Pelloni, scatenatissima e sexy ad esempio in “She’s looking good” nell’ultima puntata oppure nella quarta, con Celentano, sulle note di “Prisencolinensinainciusol”, grazie alle preziose coreografie di Gino Landi e a un corpo di ballo sorprendente anche in certi “stacchetti” recitati, e la musica per la Tigre di Cremona che fondeva la sua incomparabile voce con l’orchestra Rai e gli arrangiamenti, sovente assai arditi, studiati per lei dal suo amico Gianni Ferrio, passando da classici come “Night and Day” di Cole Porter, “Brazil” o “Mack the Knife” di Weill con continui cambi ritmici, a medley di suoi vecchi successi oppure a interpretazioni struggenti come quella di “Io vivrò senza te”.
Come detto, ogni puntata aveva un filo conduttore. A esordire è la radio. Il Quartetto Cetra si esibisce in “La radio a galena” e il “Visconte di Castelfombrone” prima di dare la linea al trait-d’union della trasmissione, una Franca Valeri che, di siparietto in siparietto, narra l’evoluzione del mezzo. La parte del leone la gioca il Festival di Sanremo, col suo storico presentatore, Nunzio Filogamo. L’orchestra diretta stavolta da Cinico Angelini, “mito” della rassegna canora, infatti, accompagna Alberto Rabagliati (scomparso poco dopo la registrazione della puntata) e Nilla Pizzi impegnati da soli o con Mina, e ancora Jula De Palma ed Ernesto Bonino. Corrado scambia salaci “stoccate” con le padrone di casa prima che giunga Gorni Kramer, altra leggenda della nostra musica, che con le due dive si lancia in “Crapa Pelada”. A chiudere un finale corale.
Se nella prima puntata a dominare era stato Sanremo, nella seconda, dedicata al Café Chantant, tocca a Napoli rubare la scena. Fior di attori come Mariano Rigillo e Antonio Casagrande viaggiano tra il guappo e il gagà mentre la “femmina” è una calda Angela Luce. La Carrà si darà assai da fare, sia da sola con una travolgente “A’ rumba d’e scugnizze”, sia con Mina e la super-ospite, una Monica Vitti che gioca a fare la sciantosa, divertendosi e divertendo.
Alla terza puntata la ribalta appartiene alla rivista, con un Macario che ci mette la sua stralunata e tenera comicità, Nino Taranto che ripropone la sua storica macchietta di “Ciccio Formaggio” e Gino Bramieri, in versione “brasileira”. Nel finale ecco Wanda Osiris, la regina indimenticabile di “Ti parlerò d’amor”, cui Mina aveva già reso omaggio con una versione di “Galanteria”, attorniata dai consueti “boys” che avevano reso celebre la “Wandissima”.
Ricchissima anche la quarta puntata, dedicata alla tv che proprio nel 1974 festeggia il suo ventennale. Per questo sia Mina che la Carrà si esibiscono, rispettivamente ne “La pioggia di marzo” e in “I say a little prayer for you”, interagendo con immagini televisive, mentre Mike Bongiorno improvvisa con le due una versione di “Rischiatutto” che ripercorre le loro carriere. Alberto Lupo si prende in giro in una parodia di “Parole, parole, parole”, prima di narrare, aiutato da filmati d’archivio, gli scandali della tv che fu. Il pezzo forte, tuttavia, è delle gemelle Kessler: assieme a Mina e alla Carrà danno vita a “So quel che sempre piacerà”, un componimento a canone (tre voci che si inseguono) da spellarsi le mani.
La quinta serata punta i suoi riflettori verso l’avanspettacolo, genere considerato “povero” ma che lanciò gente del calibro di Totò, in auge tra gli anni ’30 e gli anni ’50, caratterizzato da un pubblico popolare, vociante e sovente volgare. Con questo deve fare i conti il presentatore Toni Ucci nel lanciare le varie attrazioni: tra balletti volutamente trasandati, Mina e Carrà che recitano le parti del gigolò e della gigolette, spiccano Aldo Fabrizi, nella spassosa canzone “Lulù” e Ciccio e Franco, impegnati in una rivisitazione di “Core ‘ngrato”. Raffa si aggira tra la platea con una comica e sexy “Che calor” prima della passerella finale sulle note, ovvio, di “Luci del varietà”.
Le “Milleluci” della sesta puntata si accendono sul cabaret, con la Germania tra le due guerre a dominare la scena. Da brividi Mina in “Surabaja Johnny”, mentre un ancora paffuto Gianfranco D’Angelo e il “Professor Kranz” di Paolo Villaggio condiscono il tutto con un tocco di lucida follia prima che uno strepitoso Paolo Poli, in versione “regina del tabarin” si diverta con le due star e col pubblico. Imperdibile la performance della Carrà in “Big Spender”, classico tratto dal musical “Sweet Charity” di Coleman e chiusura affidata a Cochi e Renato, allora al top della carriera.
La settima puntata, dedicata al musical, è imperniata sulle due dive. Se, infatti, si eccettuano Gianrico Tedeschi, nei panni di un impresario impegnato a metter su uno spettacolo, ed Enrico Montesano, autore di siparietti comici con tanto di imitazione di Jerry Lewis, sono Mina e Raffaella a strappare applausi continui, partendo da “No no Nanette”, “My fair Lady”, “Oklahoma” ed “Hello Dolly” fino a giungere ad “Hair”, che vede la Carrà in una suggestiva coreografia e a “Jesus Christ Superstar” con Mina nei panni della Maddalena, passando per un grandissimo “Top Hat”, dove la cantante mostra sorprendenti doti da ballerina. Delizioso il numero di chiusura, dove le due si sciolgono in un languido “Bye Bye Baby”.
L’ultimo appuntamento ha una struttura composita: affronta operetta, circo e commedia musicale italiana. Per la prima, in un tripudio di pizzi, trine e can-can, Ave Ninchi e Giustino Durano tengono il filo del discorso assieme a una sofisticata Mina in “Frou frou del Tabarin”. L’arte circense, guidata da Moira Orfei è rappresentata dagli argentini “Los Huincas”, straordinari ballerini-giocolieri che tra tamburi e “bolas” incantano il pubblico. Pubblico che rimarrà ancor più incantato all’arrivo di Renato Rascel, che ripercorre la sua carriera di protagonista della commedia musicale. Divertentissimo assieme a Mina e alla Carrà, nei panni delle “Peter Sisters” in “Merçi beaucoup”, tenero con “Dove andranno a finire i palloncini”, è il degno ultimo superospite di un superprogramma. Dopo una travolgente “Someday”, Mina si riunisce alla compagna di viaggio per i saluti, scegliendo di affidarli a un balletto, come in ogni varietà che si rispetti.
Si chiuse così nel migliore dei modi uno spettacolo costruito sullo spettacolo, che vide momenti di alta classe (impossibile non citare, nella prima puntata, il sestetto jazz Basso-Valdambrini-Piana-Sellani-Cuppini-Azzolini) e altri di notevole ilarità, come la scenetta “Il conto” dove, nella quinta puntata, Mina fece da divertita spalla a uno scoppiettante Tino Scotti.
Limitare, tuttavia, il merito dello sfavillìo di “Milleluci” alle due sole protagoniste o alla regia di Falqui (in un rigoroso quanto vivace bianco e nero), sarebbe riduttivo. Per ogni frammento di storia dello spettacolo, le scene di Cesarini da Senigallia, ben assecondate dalle luci di Corrado Bartoloni, furono pressoché perfette, quasi “parlanti”, come quella che accompagnò Mina in una intensissima, e un filino “jazzata”, versione di “Lacreme napulitane”, nella seconda puntata. Anche i costumi di Corrado Colabucci lasciarono la loro impronta: sfarzosi ma mai pacchiani, fecero risaltare al massimo le figure delle due dive, con qualche sfizioso accorgimento come quello adottato nella terza puntata, mediante un alto copricapo in stile “Carmen Miranda”: mentre ballano e cantano sulle note di “Capocabana” si nota quanto largo sia quello di Mina e più slanciato quello per Raffa, a compensare la differenza di statura tra le due.
Al “Delle Vittorie”, dunque, tutti si prodigarono in un lavoro di squadra fatto di passione, professionalità e umiltà.
Qualcosa di irripetibile, come anche la presenza contemporanea di due assolute primedonne.
Come fu possibile metterle insieme? Molte sono le versioni, da quella che vuole sia stata la stessa Mina a proporre la Carrà a un attonito Falqui (che mai aveva lavorato con la vedette del “Tuca Tuca”), a quella che attribuisce il tutto alle pressioni dell’allora capostruttura RAI Giovanni Salvi, fino alla tesi secondo la quale fu l’amicizia tra i compagni del tempo delle due star, Alfredo Cerruti e Gianni Boncompagni a portare la Carrà al fianco della cantante.
Forse il mistero non verrà mai chiarito, ma che importa? Di certo resta che un varietà come “Milleluci” non si è più visto. Il fatto è che, in un’Italia stritolata tra terrorismo, trame occulte, governi più o meno balneari almeno nello stile, ci si stava avvicinando, quasi per reazione, all’era del riflusso, del mordi e fuggi, dell’avere tutto e subito.
La TV assorbì via via tale “humus”. Stava per finire un’epoca. Mina lo fece capire con la sigla finale. Quel “Non gioco più”, impreziosito dall’armonica di Toots Thielemans, sarebbe stato il suo messaggio d’addio ai teleschermi, divenuto definitivo col video che chiudeva “Mille e una luce” del ’78, la sensualissima “Ancora, ancora, ancora”. Falqui, invece, continuò a deliziarci coi suoi show all’insegna di una qualità mai più raggiunta dai suoi epigoni finquando, nei primi anni Novanta, la RAI – in nome di quel moloc barbaro e insensato chiamato Auditel – decise che poteva fare a meno della sua arte.
E sul varietà cominciò a calare, lentamente ma inesorabilmente, il sipario.
SCHEDA
Titolo: Milleluci
Messa in onda: dal 16 marzo all’11 maggio ‘74 sul Programma Nazionale
Con Mina e Raffaella Carrà
Regia: Antonello Falqui
Autori: Antonello Falqui e Roberto Lerici
Orchestra diretta da: Gianni Ferrio
Scenografie: Cesarini da Senigallia
Coreografie: Gino Landi
Costumi: Corrado Colabucci
Luci: Corrado Bartoloni
Fonti:
Speciale Tg1-“Mina raccontata da Antonello Falqui” di Vincenzo Mollica
La storia siamo noi-“Carramba che Raffa!”
“Il re del varietà-Antonello Falqui” di Ornella Magrini, ed. Zona, 2009
Rai Teche