Nell’autunno del 1978, la Rai trasmise uno sceneggiato a puntate dal titolo “Radici”.
Era la storia di Kunta Kinte, un giovane nero africano che negli anni bui dello schiavismo veniva rapito e strappato dalla sua famiglia e dalla sua terra, nel cuore dell’Africa, per essere deportato come schiavo nel Nord America, dai bianchi. Come lui, milioni di altri uomini e donne, nell’arco di tre secoli, furono trasportati come merce oltre l’Oceano Atlantico, caricati sulle navi dove furono incatenati e stivati alla stregua di capi di bestiame, e avviati al loro destino crudele di schiavi (ammesso che sopravvivessero al disumano trasporto), fino all’abolizione di questa pratica orrenda, abominevole, che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, avvenne, come noto, nel 1865, al termine della guerra di secessione americana, con la vittoria del Nord antischiavista di Abramo Lincoln (quest’anno, peraltro, ricorre il 150° anniversario dell’abolizione della schiavitù negli USA).
Era, in particolare, la storia di Kunta Kinte e dei suoi discendenti, che furono schiavi prima di diventare cittadini americani; ma allo stesso tempo, e più in generale, anche quella di tutti i neri d’America. Ognuno di essi, non dimenticando la sua origine africana, poteva riconoscersi in quella tragica epopea.
Lo sceneggiato, di produzione americana, era fedelmente tratto dall’omonimo romanzo di Alex Haley, un giornalista e scrittore di colore, nato nel Tennessee, che a un certo punto della sua vita avvertì il bisogno di riscoprire la sua storia e le sue origini. Ci riuscì, non senza difficoltà, con un lavoro assiduo di ricerca e scrittura che lo impegnò per ben dodici anni. Il risultato fu la pubblicazione, nel 1976, di questo straordinario romanzo, famoso in tutto il mondo, letto da centinaia di migliaia di persone, e dedicato da Haley niente meno che al suo Paese, agli Stati Uniti d’America, nel bicentenario della loro nascita.
Conviene forse, per riassumere al meglio questo libro, partire dalle sue pagine finali, dall’ultimo dei discendenti di Kunta Kinte, che è proprio l’Autore, Alex Haley.
Siamo all’inizio degli anni Sessanta, Haley si è da poco congedato dalla Guardia Costiera degli Stati Uniti e ha finalmente deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, la sua vera passione. Un giorno, abbastanza casualmente, nasce in lui l’impulso di riscoprire le proprie origini di nero africano e a poco a poco tale desiderio, procedendo nella ricerca, diventa la ragione della sua vita. Il punto di partenza sono i racconti della nonna materna, Cynthia Palmer: fin da bambino, tra le braccia della nonna, egli aveva ascoltato le storie del suo avo africano Kunta Kinte, che chiamava “Ko” la chitarra e “Kamby Bolongo” un fiume della Virginia. Contattando alcuni esperti di lingue e cultura africane, lo scrittore riesce a scoprire che quelle parole appartengono alla lingua parlata dai Mandinka, una tribù che vive nel Gambia. Emozionato, Haley vola nel Paese africano, dove conosce altre persone, esperti che gli svelano un mondo a lui fino ad allora sconosciuto: l’esistenza dei griot, uomini che, come degli archivi ambulanti di tradizioni orali, sono in grado di raccontare storie vecchie di secoli riguardanti i vari clan, le famiglie e i grandi eroi dell’Africa.
La ricerca, sempre più profonda e appassionata, lo spinge all’interno del Gambia, fino all’antico villaggio di Juffure, abitato dai Mandinka. Qui, dinanzi ad un vecchio griot, egli apprende la storia del clan dei Kinte, narrata per un paio d’ore come una cantilena, fino ad arrivare a un uomo chiamato Omoro Kinte che, nel villaggio di Juffure, prese in moglie una fanciulla di nome Binta Kebba. Dall’unione nacquero quattro figli, nell’ordine di nascita: Kunta, Lamin, Suwadu e Madi. “Più o meno intorno all’epoca in cui vennero i soldati del re – prosegue il cantastorie – il maggiore dei quattro figli di Omoro – Kunta – si allontanò per tagliare legna … e non fu più rivisto…”. E’ questo il momento più emozionante della ricerca di Alex Haley, anche se siamo appena all’inizio del suo lavoro: in questo punto, tuttavia, il cerchio si chiude e da qui, si può dire, comincia il romanzo.
Kunta Kinte nacque nel villaggio di Juffure, a quattro giorni di viaggio dalla costa risalendo il fiume Gambia, nell’Africa Occidentale, all’inizio della primavera dell’anno 1750. I suoi genitori si chiamavano Omoro e Binta. Come si usava tra i Mandinka, quando nasceva un bambino il tam-tam risuonava in tutto il villaggio, si svolgeva una cerimonia religiosa alla presenza di tutti gli abitanti e nella notte, dopo che il neonato aveva ricevuto il nome, il padre lo portava su un’altura. Qui lo sollevava verso il cielo stellato e gli sussurrava in lingua mandinka: “Guarda: l’unica cosa più grande di te”.
I Mandinka erano una tribù pacifica, vivevano di agricoltura, pastorizia e caccia; all’occorrenza potevano diventare valorosi guerrieri. La loro religione era di base musulmana: credevano in Allah e leggevano il Corano, anche se il loro credo non era islamico puro, ma si mescolava a riti magici, provenienti dalla cultura africana più arcaica. La loro società era patriarcale, ma tutto sommato civile: i ruoli dominanti spettavano agli uomini, ma anche le donne avevano un’importante funzione educativa dei figli, di governo della casa, ed erano rispettate.
Nel villaggio di Juffure, il piccolo Kunta cresce armoniosamente, nel rispetto dei costumi, della religione e delle tradizioni del suo popolo, giocando con gli altri bambini, ascoltando le storie della nonna Nyo Boto, litigando con la madre un po’ troppo possessiva secondo lui, facendo dispetti al suo fratellino Lamin e avendo fretta di diventare uomo come tutti i piccoli maschi del villaggio: a questo proposito, però, tutti i bambini mandinka, fin da quando hanno sei – sette anni (e sono ancora nel “secondo Kafo”) temono le “prove di virilità” che li attendono tra l’undicesimo e il tredicesimo anno, allorché vengono incappucciati e rapiti dagli anziani del villaggio e portati nella foresta, in un luogo segreto, dove vengono trattati con durezza, addestrati alla caccia e al combattimento; imparano ad orientarsi con le stelle, a marciare per ore e ore, a sopportare il dolore e la fame, e diventano uomini. Particolarmente temuto, nell’ambito delle dure prove che si protraggono per quattro lune (quattro mesi), è il “taglio del fotò”: l’asportazione, con la lama di un coltello, di un lembo del prepuzio, che segna il definitivo ingresso nell’età adulta e sancisce l’acquisto della virilità.
Ma c’è anche un’altra paura, ben più terrificante, diffusa nel villaggio sia tra i giovani sia tra gli anziani: quella degli uomini bianchi, chiamati “taubob”, che arrivano dall’altra parte della “Grande acqua” e rapiscono i ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne più giovani: li portano via, nella loro terra lontana, li incatenano e li rendono schiavi o addirittura li mangiano. Molti rapimenti si verificano nel corso di ogni pioggia (ad ogni anno) e solo in rarissimi casi i rapiti sono riusciti a liberarsi e a tornare. Ogni volta che qualcuno scompare dal villaggio, si svolge una cerimonia al suono del tam-tam: viene sgozzato un gallo bianco e se esso cade disteso sulla pancia c’è speranza di ritrovare lo scomparso, se invece l’uccello stramazza sul dorso con le zampe all’aria, il ragazzo o la ragazza scomparsi non torneranno mai più…
Per questo gli anziani del villaggio non si stancano mai di raccomandare, soprattutto ai ragazzi più giovani, di non addentrarsi nella foresta da soli.
Kunta è un bambino buono, ma anche molto orgoglioso e testardo. Uno dei momenti più felici della sua infanzia è quando il padre Omoro lo porta con sé a fare un lungo viaggio attraverso la foresta, a visitare un altro villaggio, alla ricerca degli zii che tanti anni prima se ne sono andati da Juffure e hanno fondato una nuova tribù. Giorni e giorni di cammino, con i piedi insanguinati, con la paura delle pantere, dei serpenti e dei leopardi, ma col cuore pieno di orgoglio e soddisfazione per aver avuto l’onore di accompagnare il padre.
Giunto al “terzo kafo”, alla sua dodicesima pioggia, arrivano le tanto temute prove di virilità: Kunta, insieme ad altri suoi coetanei, una notte viene incappucciato dal padre, trascinato e portato da altri uomini nel luogo dove si svolge il duro addestramento dei ragazzi. Tornato al villaggio dopo quattro mesi, tutto cambia per lui: la madre lo tratta con rispetto (anche se un po’ lo prende in giro), il fratellino Lamin lo guarda come se fosse una specie di Dio in Terra, il padre gli parla come a un adulto e gli dona una capanna tutta per sé.
Passano ancora cinque piogge, Kunta è ormai un giovanotto dal fisico prestante, si dedica alla pastorizia, all’agricoltura e partecipa alla vita sociale del villaggio. Gli piace istruire il fratello minore Lamin e insegnargli, con un po’ di superbia, tutte le cose che ha imparato. Ha i primi turbamenti sessuali, anche se è ancora presto per prendere moglie: gli uomini della tribù dei Mandinka si sposano tra i ventisette e i trent’anni, lo donne tra i quattordici e i sedici.
Un giorno della sua diciassettesima pioggia, la vita di Kunta Kinte, Mandinka del villaggio di Juffure, viene brutalmente spezzata: mentre sta tagliando nella foresta un pezzo di legno dal tronco di un albero per costruire un tamburo, gli uomini bianchi saltano fuori dalla macchia intorno e lo aggrediscono. Kunta reagisce, ma i “taubob” sono troppi e armati di clava. Dopo una lotta furibonda, lo immobilizzano e gli mettono le catene.
Inizia una nuova vita per lui, carica, soprattutto nella sua parte iniziale, di dolore e disperazione. Lo trascinano via incatenato e lo fanno marciare a frustate nella foresta. Lo caricano su un’imbarcazione e lo trasportano fino alle foci del fiume Gambia, dove inizia la “Grande acqua”. Qui ci sono tanti altri neri come lui, in catene, prigionieri dei taubob. Dopo averlo picchiato e frustato a sangue ad ogni suo cenno di rivolta, lo spogliano completamente, lo marchiano con un ferro incandescente, lo ispezionano e lo tastano dappertutto. Infine lo caricano su una nave e lo mettono in fondo alla stiva, al buio, con le catene ai polsi e alle caviglie, disteso su un tavolato di legno, insieme a decine e decine di altri prigionieri, tutti attaccati vicinissimi. Il soffitto della stiva è talmente basso che non appena gli incatenati cercano di mettersi seduti alzandosi sulla schiena, sbattono con la testa contro il tavolato superiore.
Appena dopo due settimane, la nave scioglie gli ormeggi e inizia a muoversi, tra le grida disperate degli imprigionati. Nella buia stiva c’è poca aria, impestata dal fetore degli escrementi e del vomito degli stessi prigionieri. Fa un caldo insopportabile, il dolore ai polsi e alle caviglie provocato dai ceppi delle catene è lancinante. Gli incatenati hanno pochissimo spazio per muoversi, sono feriti dappertutto e la loro schiena è piagata dalle frustate ricevute, in certi casi scorticata fino all’osso. Il continuo contatto con la superficie legnosa del tavolato rende ancora più insopportabile il dolore delle piaghe. Ogni tanto dei grossi topi passeggiano nell’oscurità e rosicchiano le ferite infette dei corpi umani.
Il viaggio cruentissimo attraverso l’Oceano si protrae per quattro mesi e mezzo, durante i quali, nei momenti di lucidità, un sentimento di forte odio per i taubob si impossessa del giovane Kunta, per lasciare il posto in seguito, mano a mano che i giorni passano, alla rassegnazione e alla disperazione, fino a ridursi ad un flebile e mero istinto di sopravvivenza. Domato ogni impulso di rivolta, tutti gli sforzi dei prigionieri vengono spesi unicamente per sopravvivere. Alex Haley, attraverso le sue ricerche, è riuscito a scoprire che la nave che trasportò il suo avo Kunta Kinte, giunta ad Annapolis, nello Stato del Maryland, il 29 settembre 1767, con un carico di “NEGRI SCELTI E IN OTTIMA SALUTE” (insieme a zanne di elefante, cera d’api, cotone e oro del Gambia), aveva caricato al momento della partenza 140 schiavi, di cui 42 erano periti durante il trasporto. La perdita di un terzo degli schiavi trasportati rientrava nella media delle navi negriere.
Kunta Kinte viene venduto all’asta di Annapolis e acquistato come schiavo da un bianco di nome John Waller. Questi lo porta in Virginia, gli dà il nome di “Toby”, e lo avvia a lavorare nella sua piantagione di granturco e zucche.
Kunta, fin dal momento del suo sbarco in terra americana, dopo essersi ripreso dal terribile trasporto, ha un unico pensiero: quello di scappare e di ritornare nel suo villaggio, dai suoi cari, da suo padre Omoro, da Lamin e dagli altri suoi fratellini, da mamma Binta e nonna Nyo Boto. Odia i taubob con tutte le sue forze, non riesce a comprendere come possano essere così malvagi. Disprezza i neri “americani”, i suoi compagni della piantagione che accettano docilmente la disciplina dei bianchi, parlano la loro lingua e non sanno nulla dell’Africa. Essi sono addirittura ossequiosi nei confronti del padrone, che chiamano con deferenza “massa Waller” (“massa” era il termine usato per i bianchi padroni di schiavi neri). Kunta non socializza con gli altri schiavi e non appena può rimane da solo a pregare Allah che gli dia la forza di scappare. Ma in fondo al suo cuore ha una grande paura di non farcela: quand’era prigioniero nella stiva della nave, un suo compagno incatenato sul suo stesso tavolato e arrivato qualche giorno dopo di lui è riuscito a raccontargli, in mezzo alle urla dei disperati, che nel villaggio di Juffure, dopo la sua scomparsa, il gallo bianco era stramazzato con le gambe all’aria…
Nonostante i momenti di disperazione, Kunta, non appena gli si presenta l’occasione, fugge. Nel giro di un anno scappa dalla piantagione di massa John Waller per ben quattro volte. Ogni tentativo fallisce: Kunta viene sempre riacciuffato, inseguito dai cani che lo azzannano e poi frustato a sangue dai sorveglianti. Nulla sembra domare la sua indole ribelle, nemmeno le frustate e i consigli dei suoi compagni di lavoro, che lo considerano una testa matta. Il quarto tentativo di fuga gli è fatale: due “cacciatori di schiavi fuggiaschi”, incaricati da massa Waller, lo catturano dopo diversi giorni e per vendicarsi della sua tenace resistenza gli mozzano un piede, dopo averlo beffardamente posto dinanzi alla crudele alternativa di essere evirato.
Massa John Waller si arrabbia con i cacciatori e non sapendone che cosa farsene di uno schiavo monco di un piede, lo vende a suo fratello William.
Kunta passa così al servizio di massa William Waller. A soli diciotto anni si trova con un piede mozzato, impara a camminare con le grucce.
Dopo questo ulteriore tragico avvenimento della sua vita, assistiamo con molta amarezza a un cambiamento dell’indole di Kunta: egli a poco a poco perde la sua voglia di ribellarsi e di scappare, si rassegna alla sua condizione di schiavo. Si convince che non ce la farà mai a tornare in Africa: è impossibile per uno schiavo fuggire, imbarcarsi e attraversare l’Oceano, tanto più per uno che si trova nelle sue condizioni fisiche, con un moncherino al posto di un piede. Ormai domato nello spirito e nel corpo, accetta anche lui la legge dei bianchi. Peraltro, massa William si dimostra un padrone più umano e sensibile verso gli schiavi rispetto al fratello John. Nella sua proprietà, Kunta fa amicizia, a poco a poco, con altri schiavi, tra i quali Violinista, un personaggio pittoresco che ha imparato a suonare il violino per le feste dei bianchi e che vive sperando un giorno di riscattarsi, accumulando i propri risparmi per comprare la libertà. Anche Kunta finisce con l’imparare la lingua degli odiati taubob, diventa il cocchiere personale del padrone e non se la passa affatto male rispetto agli schiavi che lavorano nei campi.
Giunto alla soglia dei quarant’anni, si innamora della cuoca Bell, che si è dimostrata premurosa verso di lui fin dal giorno del suo arrivo nella proprietà di massa William, e si sposa. Dopo tanta sofferenza e dolore, ritrova finalmente un equilibrio ed è felice. Bell gli dà una figlia, che egli decide di chiamare Kizzi. Il nome significa, in lingua mandinka, “stai ferma” o anche “stai seduta”, un auspicio per il futuro della bambina: essa non sarà mai venduta ad altri padroni, come è successo alle prime due figlie di Bell.
La notte stessa in cui nasce Kizzi, Kunta, emozionatissimo, la porta fuori dal quartiere degli schiavi e la solleva in alto, sotto la luna e le stelle, mormorandole in lingua mandinka: “Guarda: l’unica cosa più grande di te”.
Passano gli anni; uno dopo l’altro, il figlio di Omoro li conta inserendo ad ogni luna un sassolino in una zucca svuotata. Con la piccola Kizzi sulle ginocchia, egli le racconta dei nonni Omoro e Binta, del villaggio di Juffure, e le insegna molte parole in lingua mandinka.
Purtroppo, nonostante il suo nome sia di buon auspicio, quando ha sedici anni Kizzi viene venduta a un altro padrone, per aver trasgredito una regola di massa William Waller: ha aiutato un giovane schiavo, di cui si era innamorata, a fuggire. Pur con tutte le suppliche di Bell e di Kunta, massa Waller è inflessibile: Kizzi viene portata via tra le urla disperate della madre e l’ira del padre, in cui per un momento si risveglia l’ormai sopita indole ribelle.
Anche la tardiva, ritrovata, felicità di Kunta Kinte viene spezzata dall’uomo bianco. Ma è l’ultima crudele tragedia della sua vita alla quale assistiamo: lo lasciamo qui, a cinquantasei anni di età, mentre si strugge tra la rabbia e l’ennesimo enorme dolore e non sapremo più niente di lui. La vicenda si sposta in Nord Carolina, nella piantagione dove viene venduta Kizzi, di proprietà di un certo massa Tom Lea, nell’anno 1806.
Tom Lea è un bianco nato povero, arrivato alla soglia dei trent’anni, che si è arricchito allevando galli e addestrandoli al combattimento, partecipando ai tornei e vincendoli molto spesso. Il combattimento dei galli era una pratica molto diffusa in quegli anni, sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Vi era un forte giro di scommesse intorno a queste competizioni tra uccelli bardati come guerrieri, con dei micidiali speroni di ferro sulle zampe, che si affrontavano all’interno di apposite arene, prendendosi a beccate e a zampate, in una zuffa tremenda in cui svolazzavano piume e schizzava sangue. L’incontro terminava solo quado uno dei due pennuti cadeva ferito a morte; ma non era necessario attendere molto: un incontro durava in media tra i cinque e i sette minuti. Tom, grazie ai proventi delle scommesse sui galli, è riuscito a guadagnare i soldi necessari a cambiare il proprio stato sociale: ha acquistato una piantagione di cotone e diversi schiavi che lavorano per lui, diventando un “massa” invidiato dai suoi compagni di infanzia e giovinezza che sono rimasti poveri, ma sempre guardato con un certo disprezzo dai nati ricchi. Ha il vizio della bottiglia, si è sposato, ma non è per nulla fedele alla moglie. Non appena può va con altre donne e non disdegna neppure le giovani schiave nere. Questa sorte, purtroppo, tocca anche a Kizzi, che non appena arriva nella nuova proprietà, ancora in preda alla disperazione per essere stata strappata ai propri genitori, viene brutalmente violentata da massa Lea. Per fortuna, la ragazza trova altri schiavi che le si dimostrano subito amici: Miss Malizy, Sorella Sarah, Mingo e Zio Pompey; sono tutti personaggi che fanno da contorno a questa straordinaria storia. Essi aiutano la ragazza a sopportare i soprusi del padrone e, anzi, la consigliano di non resistere alle sue voglie per non essere picchiata. Così, a malincuore, Kizzi, inghiottendo amaro e reprimendo tutto l’orgoglio che le deriva soprattutto dal sangue paterno, si concede ogni sera a massa Lea, che ritorna dal giro dei campi o dal suo allevamento di galli e, in mezzo ai fumi dell’alcol, le si getta addosso.
Nonostante la sua rozzezza, massa Lea non è particolarmente cattivo con gli schiavi: come tutti i bianchi li considera esseri inferiori, poco più che animali, ma il fatto di essere stato poverissimo da bambino e da ragazzo lo rende un po’ meno sprezzante nei loro confronti, rispetto alla media degli altri “massa”. Se i suoi schiavi si comportano bene, lavorano e non gli danno noie, li lascia tranquilli e in certe occasioni dimostra di avere persino dell’affetto per loro. La volta che Kizzi rimane incinta, non la tormenta più e anzi fa in modo che sia accudita, che non si affatichi nei campi e che partorisca con l’assistenza necessaria.
Kizzi dà alla luce un bambino al quale il padrone impone il nome di George. Nipote dell’africano Kunta Kinte ma figlio di un padrone bianco, George ha la pelle piuttosto chiara e cresce lavorando anche lui nei campi, tuttavia sempre con un occhio di riguardo da parte di Tom. Sebbene non lo si possa dire apertamente, tutti nella tenuta sanno che George è figlio di massa Lea. Il bambino crescendo dimostra di avere un carattere estroverso, allegro e giocherellone. Gli piace raccontare un sacco di storielle e barzellette e mette tutti di buon umore. Tom spesso lo chiama addirittura nella sua casa a fare vento con delle piume di pavone agli ospiti bianchi mentre pranzano, ad esibirsi nella recita di sermoni della Bibbia e a cantare.
Da ragazzo, George scopre di avere due grandi passioni, entrambe trasmessegli dal padre: le donne e i galli da combattimento. Sia nell’uno che nell’altro campo egli viene agevolato dal padrone, che gli permette di girarsene libero con un lasciapassare nelle altre piantagioni per i suoi incontri amorosi e gli consente, inoltre, di tralasciare spesso la raccolta del cotone per starsene con Mingo, uno schiavo esperto addestratore di galli che ha affiancato Tom Lea fin da quando era un ragazzino ed ha iniziato la sua scalata verso il successo.
A poco a poco, George impara tutti i trucchi del mestiere da Mingo e comincia ad accompagnare sia lui che il padrone ai vari tornei del Nord Carolina. Massa Lea, notando la sua incredibile predisposizione per i galli, gli concede sempre più fiducia e lo fa partecipare in proprio a dei tornei di seconda serie: il ragazzo li vince tutti, con i galli che egli stesso addestra, facendo guadagnare un sacco di soldi anche a Tom, che si riserva una quota sulle vincite.
George nel frattempo si innamora di Matilda, una ragazza che lavora in una piantagione vicina a quella di massa Lea. Il padrone, che è soddisfatto del comportamento del ragazzo, che peraltro gli ha già fatto guadagnare un sacco di soldi, decide di accontentarlo e acquista la giovane Matilda, che viene così a lavorare nella sua piantagione e si sposa con George.
Il nipote di Kunta Kinte, a poco più di vent’anni, è uno schiavo privilegiato. Non lavora più nei campi, se ne sta sempre insieme al padrone nell’allevamento dei galli, lo accompagna ai tornei dai quali tornano vittoriosi. Porta sempre una giacca e una bombetta in testa e tutti ormai lo chiamano Chicken George.
Matilda dà ben otto figli a George. A ciascuno dei piccoli, sia il padre che nonna Kizzy raccontano la storia del loro bisnonno africano Kunta Kinte e insegnano le parole nella lingua che egli parlava. La famiglia di Chicken George vive e lavora all’interno della piantagione con una certa tranquillità rispetto a tanti altri schiavi, grazie alla fiducia e alla stima che il padre si guadagna giorno dopo giorno presso massa Lea.
George e Matilda avanzano negli anni vagheggiando sempre più un desiderio di libertà: a un certo punto della loro vita decidono di risparmiare tutti i soldi che arrivano dalle vittorie ai tornei per comprare la loro libertà e quella di tutta la famiglia, anche se per raggiungere la cifra fissata da massa Lea per il riscatto forse non basterà tutto il resto della loro vita.
Eppure quel giorno, tanti anni dopo, nel 1855, sembra arrivato. Chicken George e il vecchio Tom Lea sono ormai due allevatori di galli da combattimento famosi in tutto il Nord Carolina. Partecipano ad un ultimo prestigioso torneo dove sfidano un ricchissimo lord inglese. Dopo aver vinto una somma che consente a George di riscattare ampiamente tutta la sua famiglia e rende ricco sfondato Tom Lea, quest’ultimo, provocato nell’onore dall’inglese, anziché ritirarsi con la somma già conquistata, accetta la rivincita chiestagli dall’avversario. George non può discutere la decisione del padrone. Giocano ancora, ma questa volta il loro gallo viene ucciso e perdono tutto.
La cifra che Tom Lea deve pagare all’inglese alla fine del torneo è talmente elevata che egli è costretto ad ipotecare la piantagione e a mandare George in Inghilterra ad istruire gli addestratori di galli del lord inglese. Il sogno di Chicken George è così sfumato, egli deve attendere ancora per la libertà. Ma il padrone gli prepara già un certificato scritto di emancipazione e lo chiude in una cassetta di metallo: quando George tornerà dall’Inghilterra sarà libero.
Per ben cinque anni Chicken George rimane in Inghilterra. Nel frattempo la sua famiglia è guidata da Tom, il quarto dei suoi figli: un ragazzo mite, con la testa sulle spalle, che ha imparato benissimo il mestiere di fabbro.
La situazione economica di massa Lea, tuttavia, peggiora ancora. Due anni dopo la partenza di George egli è costretto a vendere, per far fronte al debito col lord inglese, tutti gli schiavi della sua piantagione, esclusi gli anziani. La moglie e i figli di George vengono così ceduti in blocco al proprietario di un’altra tenuta del Nord Carolina. Al suo ritorno, George trova la piantagione da dove era partito deserta, improduttiva, con le abitazioni abbandonate e il padrone in stato di indigenza, ormai ultraottantenne e consumato dall’abuso dell’alcol: mentre questi cade addormentato dopo l’ennesima sbronza, George apre la cassetta e si impossessa del suo certificato di emancipazione. Siamo nel 1860 ed egli, a cinquantatré anni, è finalmente un uomo libero.
La storia prosegue con Tom, continuatore della stirpe di Kunta Kinte, che nella nuova proprietà di massa Murray lavora come fabbro e si guadagna la stima di tutti. Egli sposa Irene, una cameriera che lavora presso la casa di un altro “massa”.
Nel frattempo scoppia la guerra civile e Tom viene arruolato come fabbro in uno squadrone di cavalleria dei sudisti. L’esperienza della guerra lo espone ai soprusi degli ufficiali bianchi, che pur non esitando a servirsi degli schiavi per i compiti di fatica nelle retrovie, li disprezzano e non perdono occasione per umiliarli.
Finalmente, dopo quattro anni di sanguinose battaglie, il Nord trionfa sul Sud. Il Proclama di Emancipazione degli schiavi, già firmato due anni prima dal Presidente Abramo Lincoln, entra in vigore in tutti gli Stati dell’Unione: Tom e la sua famiglia sono liberi.
Massa Murray, che si era dimostrato un buon padrone, offre a tutti di rimanere a lavorare nella sua piantagione, assegnando a loro la metà del ricavato.
Nei primi anni Settanta, molte carovane di schiavi liberati si dirigono verso il Tennesse per fondare una nuova colonia. Tra di essi vi sono anche Tom, Irene, i loro figli e le loro figlie, i fratelli di Tom, ognuno con le rispettive famiglie, e il vecchio Chicken George. Tutti insieme lasciano la piantagione Murray. Arrivati a destinazione, insieme ad altri, costruiscono nuovi insediamenti.
Tom gestisce un’officina di fabbro e tra i suoi clienti vi sono anche bianchi. La sua famiglia conquista una certa agiatezza economica. Una delle loro figlie, Cynthia, va a scuola e arriva persino al diploma.
Siamo ormai negli anni Novanta dell’Ottocento, Cynthia si sposa con Will Palmer, un ragazzo che è riuscito a riscattare una ditta di legname ed è diventato il primo imprenditore nero del Tennessee. Gli affari vanno subito benissimo; col passare degli anni, l’azienda si espande sempre più e Palmer si arricchisce, diventando uno dei cittadini più importanti di Henning. La loro figlia, Bertha, è la prima dei discendenti di Kunta Kinte a nascere in una famiglia americana dell’alta borghesia.
Bertha studia pedagogia, suona l’organo in chiesa e si iscrive al Conservatorio. Conosce un ambizioso, anche se povero, studente di agraria di nome Simon Haley e si fidanza con lui.
Dopo l’esperienza di Simon in Europa, arruolato nell’esercito durante la Prima guerra mondiale, la coppia si sposa. Simon va a dirigere la segheria dell’azienda del suocero. Nel 1921, Simon Haley e Bertha Palmer hanno un figlio e lo chiamano Alex.
Siamo arrivati così al punto di partenza, alla fine di questa epopea, che si conclude con Alex Haley, figlio di Bertha Palmer, figlia di Cynthia, figlia di Tom il fabbro, figlio di Chicken George, figlio di Kizzi, figlia di Kunta Kinte, che era figlio di Omoro e Binta del villaggio di Juffure. E che un giorno si allontanò per tagliare legna e non fu più rivisto.
Una storia emozionante dalla prima all’ultima pagina, anche se i momenti di palpitazione pura sono certamente quelli che hanno per protagonista Kunta Kinte; la sua vicenda è come un romanzo dentro il romanzo: con lui e per lui il lettore soffre, si indigna e si emoziona in continuazione, e riscopre una delle più grandi ingiustizie del passato, ormai piuttosto dimenticata, quasi cancellata dalla Storia che è venuta dopo.
Radici è senz’altro e prima di tutto il romanzo dell’orgoglio ferito di Kunta Kinte, un uomo al quale sono stati annientati tutti i diritti e violentati i sentimenti. Ma la sua vera forza – come si legge nel risvolto di copertina dell’edizione Rizzoli del 1977 – è che in queste pagine ogni lettore, a qualunque razza, Paese o religione appartenga, troverà un po’ di se stesso: ripenserà alle proprie ingiustizie subite, alle speranze spesso deluse, e proverà un irresistibile desiderio di giustizia e di solidarietà.