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Cronaca

Il disastro di Seveso

Il disastro di Seveso

Poco dopo mezzogiorno del 10 luglio 1976 nello stabilimento chimico dell’Icmesa di Meda, una valvola di sicurezza di un reattore esplode provocando la fuoriuscita di alcuni chili di diossina nebulizzata (qualcuno dice 10-12 chili, altri parlano di appena un paio); il vento disperde la nube tossica verso est, soprattutto sulla confinante cittadina di Seveso, in Brianza.

Dopo quattro giorni dall’incidente le foglie degli alberi ingialliscono e cadono, inizia la moria di galline, uccelli e conigli. Nell’area interessata vivono circa centomila persone e si verificano i primi casi di intossicazione nella popolazione. Il 15 luglio il sindaco di Seveso emana un’ordinanza di emergenza: divieto di toccare la terra, gli ortaggi, l’erba e di consumare frutta e verdure, animali da cortile, di esporsi all’aria aperta; il 18 luglio parte un’indagine dei carabinieri del comune di Meda e il pretore decreta la chiusura dello stabilimento; si procede all’arresto del direttore e del vicedirettore della fabbrica per disastro colposo. Ma a tutto il 23 luglio dalla prefettura non viene ancora presa alcuna decisione su come far fronte all’emergenza.

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I casi d’intossicazione aumentano, i più colpiti sono i bambini. Si dà nome a una malattia allora quasi sconosciuta: la cloracne, il sintomo più eclatante dell’esposizione alla diossina, che colpisce la pelle, soprattutto del volto e dei genitali esterni, se l’esposizione è prolungata si diffonde in tutto il corpo. Il 10 agosto si decide di evacuare l’area circostante l’impianto per circa 15 ettari e le famiglie residenti nelle zone più colpite sono invitate ad abbandonare le proprie abitazioni. Reticolati sono posti per delimitare le zone pericolose.

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Continuano intanto casi di intossicazione e aumentano i ricoveri ospedalieri tra la popolazione di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno; nelle donne incinte si diffonde la preoccupazione per gli effetti della contaminazione sui futuri nascituri. Ma gran parte degli “esperti” tendono a tranquillizzare tutti sminuendo gli effetti della diossina, anche se la televisione e i giornali continuano a mostrare filmati e foto di bambini ricoverati in ospedale con i piccoli volti coperti da estese macchie rosse e le zone contaminate dove si aggirano uomini in tute bianche sigillate che raccolgono campioni di terreno e bruciano carcasse di animali. Il risultato concreto fu di privare quella gente, combattuta fra opposte versioni, di ogni certezza.

Il territorio del Seveso fu suddiviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione sulla base delle concentrazioni di diossina nel suolo: zona A, B, e R.

Le abitazioni comprese nella zona A, la più colpita, furono demolite e il primo strato di terreno venne rimosso; gli abitanti furono evacuati e ospitati in strutture alberghiere. La zona A venne presidiata dalle forze dell’ordine per impedire a chiunque di entrarvi.

La zona B, contaminata in minor misura, e la zona R, ovvero zona di rispetto, vennero tenute sotto controllo e vi fu imposto il divieto di coltivazione e di allevamento.

Successivamente vennero create due enormi vasche di contenimento, costantemente monitorate, nelle quali venne riposto tutto ciò che era presente nella zona A, il terreno rimosso e anche i macchinari utilizzati per la demolizione e gli scavi.

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Oggi a Seveso sorge un bellissimo parco naturale, denominato “Bosco delle Querce”, a perenne ricordo della tragedia e divenuto il simbolo del riscatto morale degli abitanti.

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