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La città di Miriam

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Insight
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La città di Miriam

Messaggio da Insight »

Nel 1977 il premio Strega fu assegnato a Fulvio Tomizza (scrittore istriano e profugo a Trieste negli anni Cinquanta) per il suo romanzo “La miglior vita” (vedi l’articolo negli Approfondimenti). Lo stesso Autore, nel 1972, pubblicò “La città di Miriam”, un breve romanzo di ispirazione autobiografica.
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Una storia complessa, difficile da raccontare, che si spinge al limite del surreale, composta da tanti piccoli episodi, da pagine di diario e da trascrizioni di sogni, in omaggio alla psicanalisi, che tanta parte ha nella cultura e nella letteratura triestine.

Stefano, il protagonista del romanzo, giunge a Trieste da un paese dell’entroterra istriano, verso la fine degli anni Cinquanta, per sfuggire al regime totalitario di Tito. Giovane, aspirante scrittore e giornalista, incontra un giorno, fatalmente, a passeggio per le vie della città, Miriam, una ragazza ebrea, piccola di statura, dai lunghi capelli neri e molto sensuale. Ne rimane “stregato”, inizia a frequentarla e a corteggiarla. La ragazza, sulle prime molto riluttante e introversa, a poco a poco si scioglie. I due si baciano, iniziano una storia d’amore. Miriam ben presto accoglie Stefano ospite nella sua grande casa, dove abita soltanto con il padre e con un gatto piuttosto invadente di nome Ezechiele.
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Il primo e fondamentale tema del libro è il contrasto fra la cultura contadina, di cui è rappresentante Stefano, e quella urbana, borghese, simbolizzata dai Cohen, cioè da Miriam e da suo padre. Stefano proviene da un entroterra di campagna e da una realtà (l’Istria degli anni Trenta e Quaranta) di felice convivenza tra lingue e genti diverse, povere ma accomunate da un rapporto reverenziale con la terra, dalla fede nei saldi valori della tradizione contadina (è quella realtà che Tomizza racconta ne La Miglior vita). I Cohen, invece, sono cittadini borghesi, colti, abituati a conversare nei salotti, a vivere con una certa leggerezza (con indolenza, secondo Stefano), a criticare e a commentare in maniera “dissacrante”, cioè con molta ironia, persino i necrologi nelle pagine del quotidiano locale.

Altro importante leitmotiv del romanzo è costituito dalla città di Trieste (la seconda patria di Tomizza): affascinante, fortemente laica, cosmopolita, ma allo stesso tempo sfuggente, inafferrabile per Stefano, che vi si sente e vi si sentirà sempre un ospite: mai verranno meno in lui il senso di sradicamento e di precarietà, il sentirsi come un orfano, strappato dalla sua terra, senza più la sua cultura e identità. Di questo sradicamento, della continua e ossessiva ricerca di qualcosa di irrimediabilmente perduto, Trieste, nel romanzo, assurge a simbolo.
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I sogni che il protagonista trascrive nel suo diario sono, secondo le teorie freudiane, impulsi repressi e liberati dal subconscio, nella fase in cui l’Io cosciente abbassa la guardia e permette alla personalità di vivere secondo i propri reali ma nascosti desideri o di risolvere conflitti interiori, sensi di colpa che normalmente vengono rimossi per poter affrontare la vita in maniera apparentemente tranquilla. Ecco allora che Stefano, per liberarsi dalla figura ingombrante del padre di Miriam e per spezzare il suo profondo legame con la figlia, lo fa morire in un sogno molto bizzarro, trasformandolo in un defunto rabbino: probabilmente un simbolo della Legge, di quella Legge “urbana e borghese” che a Stefano sta molto stretta. Ecco i sogni erotici, evidenti sintomi di desideri repressi; ma anche gli incubi in cui Stefano paga le proprie colpe, le mancanze verso i propri familiari e parenti, nei confronti di Miriam e persino riguardo al suo credo cattolico, dal quale sente, con un senso di colpevolezza, di allontanarsi sempre di più. In questi sogni di penitente, Stefano arriva ad autopunirsi crudelmente.

Nella vita reale, invece, Stefano sposa Miriam e, aiutato da quello che diventa suo suocero, intraprende la carriera di giornalista. Ma neppure la professione che egli desiderava e la sicurezza del matrimonio riescono a cancellare il suo disagio esistenziale, che egli somatizza avvertendo, in certi momenti della giornata e senza apparenti motivi, un intenso malore, un senso di “ovattamento e sdoppiamento”, che gli fa perdere addirittura il contatto con la realtà.
Dopo ripetute visite da neurologi e psichiatri che non sanno spiegare la malattia di Stefano, egli, su suggerimento di un amico, cerca di “curare” il suo malessere obbedendo al proprio desiderio represso di tradire Miriam. Inizia così una serie di incontri del protagonista con donne, almeno in apparenza disponibili, che il più delle volte si concludono con un nulla di fatto.
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Passano gli anni. Il padre di Miriam muore. I due sposi continuano a vivere nella casa familiare dei Cohen. Stefano ama Miriam ed è senz’altro corrisposto. Scoprono di non poter avere figli (a causa di lei) ma questo non turba la loro relazione. Stefano arriva addirittura al punto di confessare a sua moglie buona parte dei suoi frequenti incontri con altre donne e Miriam, pur ingelosendosi, lo perdona sempre e lo giustifica. E anche questo disorienta Stefano: l’incredibile, quasi irrispettosa, comprensione di Miriam che, da un lato lo insospettisce, facendogli dubitare, a sua volta, della fedeltà della propria moglie, e dall’altro gli fa apparire la donna che ama come una creatura diversa da tutte le altre, affascinante ma allo stesso tempo misteriosa e inafferrabile, come la città in cui è nata e dove ora tutti e due vivono.

Gli incontri galanti di Stefano non sono quasi mai, tuttavia, dei veri e propri tradimenti. Perché egli, in ogni donna che gli capita di conoscere e che sembra pronta a congiungersi con lui, vede, o comunque cerca, lei, Miriam. E nella maggior parte dei casi finisce per non “concludere” l’incontro, rinunciando, o per un motivo o per l’altro, ad andare fino in fondo, spesso quando è già svestito, al momento di infilarsi nel letto dell’albergo o del motel di turno.
Alla fine di ogni avventura galante, Stefano ritorna sempre dalla propria moglie, che lo ama incondizionatamente. E così si conclude anche il romanzo: con un ultimo ritorno di Stefano tra le braccia accoglienti di Miriam, dopo l’ennesimo tradimento - tentato ma non consumato - con una bella ragazza messicana, conosciuta durante il suo lavoro di cronista ai Mondiali di calcio del 1970.
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Libro interessante, difficile, impegnativo. Occorre, per apprezzarlo, sganciarsi dai canoni della narrazione tradizionale e leggerlo un po’ “in controluce”, cogliendone i simboli, i significati nascosti, dal momento che esso appare “inafferrabile” proprio come la bella Miriam e la sua città, secondo le perfettamente realizzate intenzioni dell’Autore. Il mio consiglio, allora, per chi fosse interessato, non è soltanto di leggerlo, ma di leggerlo (almeno) due volte di seguito :)
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Whiteshark
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Re: La città di Miriam

Messaggio da Whiteshark »

Consiglio che seguirò senz'altro. Questa trama mi ha davvero (Strega)to. :)
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galerius
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Re: La città di Miriam

Messaggio da galerius »

Nell'83 ne è stata tratta una miniserie televisiva ( per la regia di Aldo Lado ), che avevo guardato un po' distrattamente. La ricordo più che altro per la bellezza della protagonista, Alba Mottura, un'attrice che poi non s'è più vista.
Attento, Black Jack, perché adesso ti tingo...sarebbe "ti tengo", ma è per far rima con...GRINGO...!
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Re: La città di Miriam

Messaggio da Insight »

Ne ho sentito parlare ma non l'ho mai vista...
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