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Nel 1975, lo scrittore romano Ottiero Ottieri, dopo un lungo periodo dedicato alla saggistica, torna alla narrativa e pubblica questo bel romanzo


Contrariamente a quel che si può essere portati a pensare, la depressione non è una malattia dei tempi moderni, ma era già ben nota nell’antichità. Una delle prime testimonianze del c.d. “male oscuro” si trova addirittura nell’Iliade di Omero, dove nel VI Canto leggiamo:

Venne in odio agli Dei Bellerofonte: / solo e consunto da tristezza errava / pel campo Aleio l’infelice, e l’orme / de’ viventi fuggìa“.

Più tardi gli antichi greci parlavano di “melanconia”, che letteralmente significa “bile nera” (melàs, “nero” e cholé, “bile”).

Nel corso dei secoli sono profondamente mutati l’atteggiamento verso gli stati depressivi e gli approcci curativi nei loro confronti. E’ relativamente recente l’impostazione che ritiene la depressione non solo una vera e propria malattia della mente, ma che è anche attenta a considerarne gli aspetti psico-sociologici.

Il romanzo di Ottieri, scritto da una persona che – purtroppo – ha conosciuto bene il “male oscuro”, indaga sullo stato mentale “melanconico” proprio sotto l’aspetto psico-sociologico, ossia considerandolo una possibile risposta, una reazione dell’individuo singolo alle dinamiche complesse della vita di gruppo.

In altri termini, il “male oscuro”, secondo l’approccio psico-sociologico, può non avere sempre e comunque origini interiori, bensì derivare anche dal relazionarsi del singolo col suo gruppo sociale di riferimento. Le cause, dunque, e la conseguente terapia, si cercano anche “fuori” dell’individuo, indagando il suo modo di rapportarsi con gli altri.

Se questa è l’affascinante premessa, la storia narrata da Ottieri non indica poi le soluzioni…e il lettore viene lasciato senza vere e proprie risposte. Dopo aver letto questo libro si è portati a pensare che la depressione sia una malattia più della società che del singolo, un male che ci riguarda tutti non solo perché tutti ci possiamo cadere, ma perché il nostro stesso modo di vivere, la “vita sociale”, può esserne una delle cause.

La protagonista, Elena Miuti, una donna avvenente ed estremamente affascinante, con tanti uomini che le girano intorno, è in grado di vedere la depressione sia dall’interno, in quanto ne soffre, sia dal di fuori, in quanto psico-sociologa.

Il suo problema è essenzialmente l’incapacità di amare e di sentirsi amata. I suoi tantissimi flirts, narrati con ironia e dovizia di particolari, si risolvono sempre con il manifestarsi della sua frigidità. Ma le origini di questo malessere sembrano da doversi ricercare anche negli stessi uomini che Elena frequenta, i quali sono sempre più attenti al suo aspetto fisico piuttosto che a quello interiore; attratti dalle sue bellissime gambe e non dalla sua sensibilità e intelligenza.

Non serviranno i frequenti ricoveri di Elena in una clinica specializzata svizzera, né i suoi tentativi (anch’essi narrati con ironia) di curarsi da sola, fingendo, ad esempio, di dover trovare un rimedio, col metodo psico-sociologico, allo stato depressivo che affliggeva lo scrittore Cesare Pavese (morto suicida)…

Elena, alla fine del libro, non ne verrà fuori e il suo problema continuerà ad essere il bisogno disperato di amore. La storia finisce così com’era iniziata, lasciandoti l’amaro in bocca.

Eppure, questo romanzo non è affatto difficile né pesante da leggere. E’ scorrevole, pieno di lati ironici ed umoristici. Offre interessanti spaccati della vita sociale settantiana, soprattutto nella dimensione della metropoli, ben nota a Ottieri, che visse sia a Roma (dove nacque) che a Milano (dove morì).

E se è vero che la depressione – o “melanconia” – è un male antico, ti vien da chiederti, dopo aver letto “Contessa”, se questo “male oscuro” non sia proprio un prodotto della società moderna, dove di Bellerofonte, ormai, ce ne sono a milioni.

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