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Etica criminale

Etica criminale

Renato Vallanzasca fu un bandito e un criminale che insieme alla sua banda, tra l’agosto del 1976 e il febbraio del 1977, mise a segno una serie impressionante di rapine a mano armata (almeno settanta), spesso con spettacolari e talvolta sanguinose sparatorie, ben sei omicidi e quattro sequestri di persona a scopo estorsivo.

Ricordo, in quel periodo, quel nome che mi inquietava soltanto a sentirlo pronunciare alla radio o alla televisione o leggendolo quasi quotidianamente nei titoli dei giornali: “Vallanzasca” per me, che allora avevo solo sette anni, era una specie di “uomo nero”, un “babau”, un “mostro” insomma …

Naturalmente non era così. Vallanzasca era (ed è) soltanto un uomo, fatto più di ombre che di luci, incline alla delinquenza, e disposto a tutto pur di mettere a frutto i suoi scopi illeciti, finanche ad uccidere chiunque si trovasse sul suo percorso criminale e lo “intralciasse”.

Nonostante la sua dimensione “umana” (perché i mostri e gli orchi esistono solo nelle fiabe), ancora oggi mi riesce difficile comprendere come la stampa e la televisione, pur raccontando le sue terribili gesta, possano averlo spesso dipinto come un “bandito gentiluomo”, un uomo dotato di una certa etica e di un cuore generoso… Quasi una figura romantica…

Il giornalista Massimo Polidoro gli ha dedicato qualche anno fa un libro: “Etica criminale”, ed. Piemme, 2007.

Il libro di Polidoro si fonda sulla testimonianza di alcune persone che vissero in maniera diretta i fatti della banda Vallanzasca, sulla lettura degli atti processuali e delle cronache giornalistiche, ma anche – e soprattutto – su quanto il giornalista ha potuto apprendere direttamente dallo stesso Vallanzasca e da persone a lui vicine…

Fin dai primi capitoli, dunque, Vallanzasca ci viene presentato come un bambino ribelle, insofferente alle regole ma anche molto sensibile alle “ingiustizie”… Lo vediamo, infatti, a soli otto anni, provare il primo brivido del carcere, quando un carabiniere, per “dargli una lezione”, lo rinchiude per alcuni minuti dietro le sbarre, dopo averlo fermato mentre faceva scappare gli animali del circo rinchiusi in gabbia…

Da ragazzino, poi, se giocando a pallone qualcuno faceva il prepotente coi più deboli, doveva vedersela con lui…

Ma ben presto (essendo il giovane Renato “allergico” sia alla scuola che al lavoro) si fa largo in lui un impulso irresistibile a procurarsi il denaro facilmente, rubando e poi rivendendo la merce alle persone del quartiere di Milano dove abita (il “Giambellino”). In questi suoi esordi della carriera criminale, Vallanzasca appare nel libro di Polidoro come una specie di Robin Hood…

A sedici anni arriva la prima pena da scontare al carcere minorile Beccaria, dal quale ripetutamente evade venendo ogni volta puntualmente riacciuffato…

A diciannove anni inizia la vera e propria carriera di bandito, quando da solo rapina un portavalori nel centro di Milano, ma viene arrestato dalla polizia e rinchiuso per la prima volta nel carcere degli adulti…

Uscito un anno dopo grazie a un’amnistia, Vallanzasca mette su un vero e proprio “gruppo di fuoco”… Siamo nei primi mesi del 1972: rapine a mano armata ai supermercati “Esselunga” e ai portavalori, sparatorie spettacolari per le vie di Milano…

Macchine di lusso e belle donne affollano la vita del “bel Renè”; ma la felicità dura poco: arriva l’ennesimo arresto e la prima lunga condanna da scontare in carcere…

Nel luglio del 1976, Vallanzasca evade dall’ospedale Bassi di Milano corrompendo le guardie. Riorganizza la sua banda e la rinforza, trasformandola nella più “efficiente macchina da rapine” che esistesse in Italia in quegli anni… Ma inizia anche la terribile scia di sangue…

Il 23 ottobre, di ritorno da una breve “vacanza”, fermato da un blocco stradale mentre si trova alla guida spericolata di una Bmw nei pressi di Montecatini, il “bel Renè” fa secco un poliziotto (l’appuntato Bruno Lucchesi), anche se dal libro di Polidoro apprendiamo che non sarebbe stato Vallanzasca l’uomo che sparò, ma un altro componente della banda che usava il suo documento di identità…

Il 30 ottobre ad Andria, durante una rapina in banca, la banda Vallanzasca falcia a colpi di mitra un impiegato che cerca di dare l’allarme (Emanuele De Ceglie)…

Pochi giorni dopo, durante un inseguimento con la polizia a Milano, gli uomini di Vallanzasca uccidono con una raffica di mitra un ignaro automobilista per sottrargli l’auto (il medico Umberto Premoli)…

Il 17 novembre si svolgono i fatti di piazza Vetra: conflitto a fuoco nei pressi dell’Esattoria di Milano, morte del brigadiere di polizia Giovanni Ripani e del bandito Mario Carluccio…

Il libro prosegue raccontando della “guerra” tra la banda Vallanzasca e quella del boss della malavita milanese Francis Turatello, dei due sequestri di persona (altri due non furono mai denunciati), soprattutto quello della giovane Emanuela Trapani, figlia di un ricco industriale, che molto fece parlare i giornali e la televisione circa una presunta storia d’amore (smentita dal libro di Polidoro) tra la ragazza e il bandito spietato, ma gentiluomo…

Si arriva all’ultima sanguinosa sparatoria con la polizia al casello di Dalmine, vicino a Bergamo, il 6 febbraio del 1977, quando perdono la vita il brigadiere Luigi D’Andrea, l’agente Renato Barborini e il bandito Antonio Furiato. Lo stesso Vallanzasca rimane ferito durante il conflitto a fuoco…

Il 15 febbraio 1977, Vallanzasca viene arrestato dai carabinieri a Roma. Sovrastato dai flash dei fotografi e dalle numerose domande dei giornalisti, il “bel Renè” improvvisa una specie di conferenza stampa e naturalmente promette la fuga. E’ una superstar ormai…

La sua carriera criminale non si ferma qui. Nel 1980 tenta di fuggire dal carcere di San Vittore: insieme ad altri detenuti sequestra degli agenti di custodia, riesce a fuggire per strada ma viene raggiunto da un proiettile della polizia che lo ferisce gravemente alla testa…

Nel 1981, nel supercarcere di Novara, i detenuti insorgono per giustiziare due “infami” che avevano collaborato con la giustizia. Vallanzasca si occupa personalmente dell’eliminazione del detenuto appena ventenne Massimo Loi al quale, dopo un accoltellamento, viene anche staccata la testa. I giornali scrivono che gli insorti avrebbero poi improvvisato una partita di calcio usando la testa del “giustiziato” come pallone. Ma secondo il libro di Polidoro si tratterebbe di un’esagerazione…

In carcere cresce il mito del “bel Renè”, sommerso dalle lettere di ammiratrici che sognano di avere una relazione con lui. Si celebra a Rebibbia, nel 1979, persino un matrimonio tra Vallanzasca e una delle sue tante ammiratrici. Testimone di nozze è il boss Francis Turatello, nel frattempo divenuto grande amico di Vallanzasca…

Infine, l’ultima clamorosa fuga, nel luglio del 1987, quando Vallanzasca beffa i carabinieri che lo devono trasportare su una nave in partenza dal porto di Genova, ed evade svitando il vetro dell’oblò della sua cabina e infilandosi nell’apertura. La fuga dura una ventina di giorni. Poi un Vallanzasca ormai “maturo”, vicino ai quaranta, decide di non fare follie e si consegna senza opporre resistenza ai carabinieri che lo fermano a un posto di blocco, sulla strada verso Trieste…

Complessivamente, dal libro di Massimo Polidoro emerge una figura molto romanzata e annacquata del bandito Renato Vallanzasca. Un Vallanzasca molto (troppo) indulgente verso se stesso, pronto ad assumersi la responsabilità “morale” di tutti i fatti di sangue narrati, ma che nega nella maggior parte dei casi di aver partecipato direttamente alla loro realizzazione. Un Vallanzasca dispiaciuto e addirittura sconvolto ogni volta che durante una rapina qualcuno rimaneva steso sull’asfalto, come se si fosse trattata di una disgrazia…

Questo libro, a mio avviso, funziona abbastanza bene come “fiction”, pronta per una trasposizione televisiva o cinematografica: chi volesse farsi un’idea esatta di che cosa sia stata la banda Vallanzasca negli anni Settanta, può anche fare a meno di leggerlo; chi invece è appassionato di fictions poliziesche (viste però dalla parte dei banditi) può anche divertirsi a leggere questa storia. Ammesso che sia giusto divertirsi, sapendo che i fatti narrati sono veramente accaduti e che dietro alla verità del bandito ci sono uomini caduti ingiustamente, nell’adempimento del loro dovere o perché semplicemente si sono trovati per caso nel posto e nel momento sbagliato. Qui effettivamente entra in gioco l’etica, ma quella “non criminale”. Personalmente ritengo, allora, che il libro di Polidoro non renda affatto giustizia alle numerose vittime della storia che vi viene raccontata.

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