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Il busto di gesso (Premio Campiello 1976)

Il busto di gesso (Premio Campiello 1976)

Nel 1976, il prestigioso premio letterario Campiello fu vinto dal giornalista Gaetano Tumiati, con il suo romanzo largamente autobiografico, intitolato “Il busto di gesso”. Nato a Ferrara nel 1918, Tumiati nel dopoguerra entrò nella redazione dell’Avanti!, quotidiano socialista, e ne divenne un inviato speciale. Passò poi a dirigere l’Illustrazione italiana e, proseguendo nella sua carriera, fu inviato speciale della Stampa di Torino. Infine passò alla rivista Panorama, divenendone vicedirettore.

In questo romanzo, un giornalista di nome Leone Braccio, alter ego di Gaetano Tumiati, avendo superato i cinquant’anni, si ferma a riflettere sulla propria vita, con pacatezza e molta ironia, ripensando alle solide e ferme convinzioni che di volta in volta hanno accompagnato le diverse fasi della sua esistenza, sostenendola proprio come un busto di gesso ortopedico. Di questi “busti di gesso” egli si è via via liberato, rimanendo alla fine senza veri e propri punti di riferimento ideologici e morali, ma con una verità da dover ricercare giorno per giorno, avendo imparato che in realtà nella vita non esistono certezze: non ci sono “busti di gesso” dai quali si può validamente farsi sostenere. E, dopotutto, è meglio così.

Il pretesto per le riflessioni, che si svolgono la sera a letto prima di riuscire a prendere sonno, è proprio il busto ortopedico che tiene immobilizzato il giornalista per curarlo da un’ernia alla colonna vertebrale. Dal busto vero e proprio egli passa a riflettere sui “busti di gesso” simbolici che hanno sostenuto di volta in volta la sua vita. Essi sono stati: la famiglia, durante l’infanzia; il fascismo, durante l’adolescenza e la prima giovinezza; e infine il socialismo, l’ultimo “busto di gesso” che lo ha sostenuto prima di incrinarsi anch’esso e rompersi, come tutti gli altri.

La lunga riflessione ripercorre così tutta la sua esistenza a partire dagli anni Venti, per passare attraverso l’esperienza dell’adesione al fascismo e della guerra, fino al dopoguerra e agli anni Cinquanta e Sessanta. Essa è continuamente inframmezzata da spaccati di vita attuale, da confronti tra il passato e il presente. E le riflessioni e gli aneddoti che riguardano l’oggi, fanno da piacevole e divertente contrappunto ai ricordi, spesso dolorosi, del passato. Leone attualmente è un giornalista affermato, che vive e lavora a Milano ed è felicemente sposato con una donna amorevole e leggermente svagata di nome Marcella. E’ padre di due gemelle sedicenni che fanno parte del Movimento Studentesco dei primi anni Settanta, Ada e Margherita, con le quali il dialogo e il confronto, spesso, non sono molto semplici…

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Il primo “busto” che ha sostenuto Leone è stata la sua famiglia d’origine, con i suoi principi morali e le regole comportamentali: delle vere e proprie “leggi di vita” che hanno guidato la sua infanzia e che gli sono state trasmesse per lo più dal padre, Gerolamo Braccio, avvocato e docente universitario a Ferrara.

Figura austera, dignitosa e autorevole, l’avvocato Gerolamo è stato per Leone e i suoi fratelli, fin dai loro primi anni di vita, il metro e la misura del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Un notabile di stile ottocentesco che, alla sera, dopo cena e davanti al caminetto, leggeva ai suoi quattro figli I Ricordi di Marco Aurelio ed aveva una fede smisurata nella Legge.

La massima morale che accompagnò l’infanzia di Leone nella grande casa di via Palestro, a Ferrara, fu addirittura fatta scrivere dal padre a lettere gotiche su un paralume del soggiorno: “Il poco è ciò che appaga”. Un motto che doveva trasmettere ai figli il senso della misura e il saper accontentarsi di ciò che si ha e che si riesce ad ottenere lavorando onestamente. Altri tre erano i principi fondamentali che essi avrebbero dovuto osservare nella vita: 1) la coerenza morale, cioè comportarsi sempre secondo i principi in cui si crede; 2) fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a se stessi; 3) non dare importanza al denaro.

La prima parte del libro è così dominata dalla figura del professor avvocato Gerolamo Braccio, che viene rievocata nei ricordi e negli aneddoti che il figlio racconta, oggi, con una certa tenerezza e con una punta d’ironia. I ricordi, naturalmente, si intrecciano con fatti di cronaca storica, rievocando, ad esempio, le violenze dello squadrismo fascista.

Da quel mondo dominato non da convinzioni proprie, ma da quelle del padre, Leone si distacca semplicemente crescendo e cominciando a fare esperienze proprie. Il suo distacco, a dire il vero, non è tanto un rinnegamento dei principi morali trasmessigli dal padre, che tutto sommato rimangono sempre validi, ma quanto un abbandono dell’infanzia, e con essa anche dell’intima convinzione che suo padre fosse infallibile. Il primo “busto”, infatti, si incrina quando Leone, a dodici anni, sente per la prima volta di non essere più un bambino.

L’episodio che causa l’incrinatura è dovuto ad Annalise Baumann, una giovane bambinaia che il padre fa venire dalla Svizzera per insegnare ai figli il francese e il tedesco. Leone, che è il più grande dei fratelli, non solo si affeziona ma rimane affascinato dalla ragazza: anzitutto dalla sua bellezza e affabilità, e poi perché proviene da un mondo e da una cultura diversi, essendo, ad esempio, di religione protestante.

Ma la ragazza è anche piuttosto disinibita e viene vista male dalla chiusa e bigotta borghesia di provincia. Quando si viene a sapere che essa trascorre le sue giornate libere in compagnia degli ufficiali del Reggimento Lanceri in libera uscita, il professor Braccio, suo malgrado, la deve licenziare e lei è costretta a fare le valigie. E’ a questo punto che Annalise, pur cercando di consolare Leone, che è addolorato per la sua partenza, lo tratta come un adulto, non nascondendogli il fatto che essa non potrà mai più tornare. Leone, pur nella sua tristezza, è contento perché per la prima volta si sente grande. E’ allora che il “busto” dell’infanzia inizia a scricchiolare.

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Il secondo busto che “ingessa” con la sua solida ideologia la vita di Leone, durante l’adolescenza e la giovinezza, è quello del fascismo.

Da piccolo Leone ha sempre guardato ai fascisti con paura e repulsione, a causa degli episodi di violenza squadrista cui ha assistito e anche per l’influenza del padre, che è sempre stato un antifascista, anche se moderato.

Negli anni Trenta il regime si consolida e i fascisti iniziano ad assumere un volto più presentabile, fino a costituire la “normalità”. Ormai, tra i ragazzi, chi non è fascista è considerato una mosca bianca, un soggetto da emarginare.

L’adesione del giovane Leone al fascismo arriva piuttosto tardi, verso la metà del decennio, quando egli ha sedici anni ed è uno dei pochi del suo ginnasio a non essere ancora fascista.

Un giorno Leone viene chiamato a sostituire il portiere di una squadra di calcio ginnasiale durante una partita e si comporta egregiamente, conquistando l’ammirazione e la simpatia dei suoi compagni. I ragazzi, che sono tutti avanguardisti, lo accolgono nel loro gruppo e lo convincono a iscriversi alla sezione giovanile del partito. Per Leone, dunque, l’adesione al fascismo avviene per una scelta conformista e rappresenta una grande “conquista sociale”, perché una volta entrato anche lui negli avanguardisti, si sente finalmente alla pari di tutti i suoi compagni e amici.

Per gli stessi motivi, anche il fratello minore Franco si iscrive al partito fascista. Insieme, lui e Leone partecipano con entusiasmo e ardore giovanile a tutte le adunate degli avanguardisti, mentre il padre li osserva con scetticismo, ma in fondo contento che i suoi figli non siano degli emarginati.

Anche per il professor Gerolamo Braccio, però, arriva il giorno in cui, inghiottendo amaro, deve prendere la tessera del partito fascista per non perdere il suo impiego all’università e diventare un reietto.

Il massimo dell’entusiasmo per il Fascio arriva il giorno della conquista di Addis Abeba (5 maggio 1936), quando tutta Ferrara è in piazza per celebrare la vittoria del Duce e la nascita dell’Impero fascista. L’unico rammarico di Leone e Franco è quello di essere ancora troppo giovani per far parte degli eroi che hanno conquistato l’Abissinia e l’hanno liberata dalla schiavitù.

Dovranno aspettare ancora qualche anno, poi finalmente arriverà anche per loro il momento della gloria. Con l’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, infatti, entrambi partono con entusiasmo e vengono mandati a combattere in Africa Settentrionale: avranno, tuttavia, destini diversi.

Leone, dopo aver frequentato il corso ufficiali, diventa sottotenente e viene destinato in Libia, arruolato nel I Raggruppamento Esplorante Corazzato. Il suo battaglione è presto costretto alla ritirata e nel 1942 egli viene catturato dai nemici e mandato in un campo di prigionia in Texas, dove rimarrà fino alla fine del conflitto mondiale.

Il fratello Franco, invece, dopo l’8 settembre passa nella Resistenza con le formazioni partigiane garibaldine. Proprio mentre si trova prigioniero negli Stati Uniti, Leone viene a sapere che il fratello, a poco più di vent’anni, è stato fucilato dai fascisti dopo un rastrellamento nei pressi di Pesaro.

A quel punto Leone si era già liberato anche del suo secondo “busto di gesso”: ad incrinare le sue convinzioni fasciste erano state, oltre a tutti gli orrori visti sui campi di battaglia, anche le parole di uno dei suoi commilitoni, un contadino di origini siciliane, che gli avevano aperto gli occhi sull’assurdità della guerra fascista.

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Terzo “busto”, dal quale Leone è sorretto dagli anni del dopoguerra e fino all’inizio della seconda metà degli anni Cinquanta, è quello rappresentato dalla fede nella rivoluzione socialista e nella “palingenesi universale” alla quale essa darà vita. A far maturare questa nuova convinzione nel narratore è la sua esperienza della guerra e della prigionia, ma anche il sacrificio del fratello e di tanti altri amici che hanno lottato per la libertà e la democrazia.

Tornato dalla prigionia, Leone intraprende la carriera giornalistica, si trasferisce a Milano ed entra nella redazione del più importante giornale socialista (nel libro chiamato “Avanti popolo”). Sono gli anni del fronte unico Nenni-Togliatti, anche se vi sono forti differenze di vedute tra i due più importanti partiti della sinistra italiana: mentre i comunisti, almeno teoricamente, hanno come fine ultimo la realizzazione del socialismo attraverso una rivoluzione violenta e hanno la loro “spinta propulsiva” nell’Unione Sovietica di Stalin, i socialisti intendono arrivare a quel medesimo risultato attraverso graduali riforme da realizzarsi con gli strumenti propri della democrazia parlamentare e guardano all’Urss con simpatia ma anche con un certo distacco.

Dopo la sconfitta del Fronte unico alle elezioni del Quarantotto e l’inizio della Guerra Fredda, crescono le divisioni tra i due partiti. Sempre più i socialisti teorizzano una “terza via”, alternativa sia al Patto Atlantico che a quello di Varsavia, e si radicalizzano nella loro anima riformista. E’ un periodo di intenso impegno professionale e politico per Leone Braccio, che diventa inviato speciale del quotidiano di partito. Una grande fede nell’avvenire socialista lo anima: il sogno di una società egalitaria, senza più differenze di ceto, ingiustizie sociali e criminalità.

Nel frattempo irrompe nella vita di Leone l’amore per Marcella, incontrata e conosciuta alla mensa dei giornalisti. Essa lavora per il più importante giornale borghese che ha sede a Milano (nel libro chiamato “Gran Lombardo”) ed è una delle poche giornaliste donne di quei tempi. L’amore per quella che diventa poco dopo sua moglie costituisce per Leone la prima incrinatura del suo terzo “busto di gesso”: a poco a poco, infatti, la fiamma della passione politica si attenua per lasciare il posto al sentimento privato e intimo che egli prova per Marcella.

Ma i colpi decisivi, che valgono a scrollarsi di dosso l’ingessatura socialista, sono tre e portano tutti la data del 1956: 1) le rivelazioni al mondo dei crimini contro l’umanità commessi da Stalin, fatte da Kruscev durante il XX Congresso del PCUS; 2) l’invasione sovietica dell’Ungheria; 3) la nascita delle due gemelle, Ada e Margherita.

Due avvenimenti pubblici e uno privato, che allontanano definitivamente Leone dalla sua cieca fede nella “palingenesi universale” del socialismo. L’anno seguente egli concretizza questo suo distacco lasciando l’“Avanti popolo” e passando a lavorare per un giornale borghese.

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Le pagine finali sono dedicate alla liberazione anche dall’ultimo condizionamento, di tipo affettivo questa volta, proveniente dal padre. Dopo la morte del vecchio professore avvocato Gerolamo Braccio, Leone ha continuato a portare per diverso tempo, come ricordo, la sua fede nuziale al dito, dicendo alle figlie che l’avrebbe tenuta per tutto il resto della sua vita e che avrebbe voluto essere seppellito con essa una volta morto. Un giorno, invece, senza che accada nulla di particolare, egli, del tutto spontaneamente, si leva l’anello paterno e lo ripone nel cassetto dei gioielli. Ciò, naturalmente, non significa che egli non ricorderà più suo padre, ma semplicemente che intende vivere il tempo che gli resta libero da qualsiasi condizionamento, anche emotivo. Perché questo è il modo più autentico e sincero di vivere la vita: con un saggio distacco, senza preconcetti, sostegni e costrizioni, né ideologiche né morali. Dopodiché, naturalmente, nell’animo di Leone Braccio permangono tutti i dubbi di questo mondo: ma rendersi conto con umiltà che nessuno ha la verità in pugno e rimanere sempre se stesso è davvero il massimo a cui possa aspirare un uomo libero.

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Lettura piacevole, amara e allo stesso tempo divertente. Bene, è giusto liberarsi dai “busti ideologici”, sono d’accordo. Purché, però – mi sento di aggiungere – a quei busti non si sostituiscano altri idoli, “vitelli d’oro” e falsi miti della società consumistica, come ad esempio il Dio-denaro o il mito del successo o anche il mai morto “me ne frego”. Rischi che forse non esistevano quando Leone Braccio si liberava con soddisfazione anche dall’ultimo suo “busto di gesso”; ma che oggi, invece, a mio parere, sono piuttosto forti.

No ai busti ideologici, ma no anche al qualunquismo, insomma. Quanto ai busti ortopedici, speriamo di non averne bisogno :)

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