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Musica

The Dark Side of the Moon

The Dark Side of the Moon

Il marzo 1973, nella storia della musica, non fu e non può essere un mese qualsiasi di un anno qualsiasi (e, forse, si potrebbe dire lo stesso per la storia del costume); sicuramente, quelle lettere e quei numeri sul calendario segnano una pietra miliare lungo il sentiero delle pubblicazioni fonografiche, dato che proprio in quel mese di quel fatidico anno raggiunse gli scaffali dei negozi di dischi (ah, quei mondi aperti tra quattro mura ormai oggi rari) “The Dark Side of the Moon”, uno degli album più venduti di sempre, opera innovativa e tra le più riconoscibili del Novecento e tra i capolavori, se non il capolavoro, della band che lo pensò e lo incise: i Pink Floyd.

L’ellepì, un vero spartiacque nella carriera del gruppo, ebbe una gestazione piuttosto lunga rispetto ai precedenti, pur laboriosi, sia per complessità, trattandosi del loro primo vero “concept-album”, sia per numerosi impegni presi dai quattro (Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright, Nick Mason) tra tour in giro per il mondo, colonne sonore e progetti multimediali in cui furono coinvolti.

Tutto inizia verso la fine del 1971 intorno a novembre, quando per i Pink Floyd, citando un noto slogan degli anni ’70, c’è musica nuova in cucina – letteralmente! Come sono soliti fare, si riuniscono appunto presso la cucina di Nick Mason per discutere di un nuovo album, e Roger Waters propone di lavorare seguendo un filo conduttore: la vita, a partire dal battito del cuore, e la strada che porta all’alienazione mentale nella società moderna.

L’idea nasce sia dall’osservazione della way of life contemporanea sia dalla loro stessa esperienza artistica di musicisti in continuo movimento non solo creativo, ma concreto, con quel che ne consegue: lo stress dei viaggi, la lontananza da casa e i relativi problemi, il rapporto col denaro in quanto artisti ma anche professionisti che vivono delle sette note e la realtà che li circonda, i conflitti e le questioni sociali, le differenze tra classe lavoratrice e dirigenziale, tra gente comune e politici, la religione (tema per cui sviluppano un interesse in quel preciso periodo proprio dopo il tour negli Stati Uniti, con capatina finale in Canada, risalente giusto alla seconda metà di ottobre).

Più in generale, il non facile obiettivo è quello di scrivere un’opera sul significato dell’esistenza come assoluto e nel contesto dell’epoca. Devono sbrigarsi: nel giro di un mese e mezzo inizierà il nuovo tour inglese dopo una pausa che durava dal 1969, salvo periodiche esibizioni, e, accanto ai classici del repertorio, gli serve materiale nuovo sia per accrescere l’interesse del pubblico sia per rodare quello che dovrà diventare il prossimo disco in studio (come sempre hanno fatto, anche negli ultimi due anni, prima con la suite di “Atom Heart Mother” inizialmente eseguita dal vivo, nei mesi precedenti la pubblicazione dell’album omonimo, in una versione embrionale e col titolo provvisorio “The Amazing Pudding”, e poi con “Echoes”, dal successivo “Meddle”, che attraversa le stesse fasi di lavorazione sotto i temporanei titoli “Nothing Part 1-24” e “The Return of the Son of Nothing”).

Così, a partire dal 29 novembre, passano dodici giorni in una piccola sala prove degli studi Decca di West Hampstead, nel nord-ovest londinese. Ricorda David Gilmour che all’inizio, sul piano strettamente musicale, non avevano a disposizione molti spunti, ma solo qualche abbozzo, residui di cose precedenti, e anche Waters rammenta che iniziarono a improvvisare sulla base di alcune frasi musicali; poi, continuando ad elaborare quelle vaghe impressioni tematiche e sonore, le idee, nelle parole di Waters, “prendevano forma con grande fluidità: era come se avessero una propria forza interiore che rendeva tutto più facile”.

Infatti compongono parecchi brani, e per la prima volta si incarica lui in esclusiva della scrittura dei testi per i quali già in precedenza aveva fornito prove di rilievo.

Nella prima quindicina del nuovo anno si spostano nel grande spazio prove dei Rolling Stones a Bermondsey, sud di Londra, dove perfezionano gli ultimi dettagli dello spettacolo, mentre le prove finali si svolgono al Rainbow Theatre, dove si esibiranno il mese seguente.

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Per il tour è stato acquistato un nuovissimo impianto di amplificazione con un banco di missaggio a 28 canali e un impianto monofonico a 360 gradi, e, come già in passato, vengono registrate su nastro delle parti con effetti sonori; inoltre, i Floyd si sono nuovamente fatti progettare un “light show”, dai loro primi exploit professionali dei tardi anni ’60, dal loro “creativo di architettura luminosa” Arthur Max.

In totale, l’equipment ammonta a nove tonnellate di attrezzature trasportate da tre autocarri, montate nel pomeriggio prima di ogni concerto da una squadra di sette persone. Lo stesso Rick Wright dichiara in proposito: “A volte guardo i nostri autocarri e le nostre tonnellate di attrezzature e penso “Cristo, dovrò solo suonare un organo!”.

Il 20 gennaio, dal Dome di Brighton, parte il nuovo tour. La suite, o meglio la sequenza di “The Dark Side of the Moon” esiste già, come bozzetto, nella sua quasi interezza, tant’è vero che i Floyd, prevedendo di suonare i loro brani più noti come seconda parte del set, azzardano l’apertura della serata con quelli nuovi – ma, circa a metà, devono fermarsi: si dice che i tecnici del suono e delle luci (rispettivamente Bill Kelsey e Dave Martin) abbiano urlato l’uno contro l’altro ai due lati del palco perché, come ricorda il “roadie” Mick Klucynski, ancora non sapevano bene come suddividere l’energia tra i due elementi scenici!

Infatti, secondo le cronache e come provano le registrazioni, si ode a un certo punto un fastidioso ronzio che sporca l’esecuzione per qualche minuto: Gilmour si volta a dire qualcosa a Waters, che posa il basso, e escono di scena, per poi rientrare, trascorso un po’ di tempo, e riprendere coi già previsti classici di quegli anni.

Grazie ai servigi del cronolettore, possiamo collegarci in diretta con gli anni ’70 per rivivere quella serata:

Naturalmente i quattro non si danno per vinti e nelle successive date, risolti gli inconvenienti, continuano a proporre ed affinare le nuove canzoni nella prima parte dello show, e nello spettacolo del 5 febbraio alla Colston Hall di Bristol aggiungono per la prima volta una “chiusa” alla suite, quella che poi diventerà sul disco “Eclipse”, ma con un testo non ancora definitivo.

Le serate culminanti saranno le quattro repliche al Rainbow Theatre di Londra dal 17 al 20 febbraio, nelle quali il processo di elaborazione live del nuovo album non si arresta, anzi!

Racconta Nick Mason: “Fu un bel modo di sviluppare un disco, ti ci abituavi: imparavi i pezzi che ti piacevano e quelli che invece non sopportavi, ed era interessante per il pubblico sentire lo sviluppo di un brano.

Se qualcuno fosse venuto a vederci quattro volte, non avrebbe ascoltato mai la stessa cosa…”.

A voi il giudizio:

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